Messina Denaro pensava di distruggere il parco archeologico di Selinunte
Abbiamo rischiato di perdere uno dei patrimoni artistici più importanti non solo della Sicilia, ma del mondo intero. Il parco archeologico di Selinunte era finito nel 1993 sull’elenco preparato dalla mafia assassina e stragista. Era uno dei possibili «siti» da colpire perché così pensava la mafia siciliana, per prepararsi a contrattare con il nuovo che avanzava nella politica tutta una serie di cose. L’idea di mettere un paio di bombe dentro il parco archeologico di Selinunte, guarda caso, era venuta all’attuale latitante Matteo Messina Denaro.
Il «boss» adorato dai suoi complici, quasi «venerato», non avrebbe avuto incertezze nel pensare di mandare per aria secoli e secoli di storia e compiere il maggiore danno alla sua terra che avrebbe mai potuto fare, dopo le decine di morti ammazzati seminati per le strade del Paese. La rivelazione circa la preparazione di questo attentato è contenuta agli atti della sentenza pronunciata a Firenze, già da qualche tempo, a proposito delle stragi del 1993 di Roma, Milano e Firenze per l’appunto, quelle che recano la firma di Matteo Messina Denaro.
Il boss, ricercato dal giugno 1993, 49 anni da compire ad aprile, condannato per decine di delitti, per essere mandante di stragi, ma anche per impersonare oggi la mafia diventata impresa, non aveva avuto remore a individuare un sito di «casa sua» per alzare il tiro contro lo Stato. A parlare di questo attentato, che poi non si fece, è stato l’ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca.
Ma in quella sentenza si legge anche altro, e cioè che la stagione delle stragi fu concordata nel 1991 durante una riunione tenutasi a Castelvetrano, presente il capo dei capi Totò Riina. «Il programma che io conoscevo per il 1993 – spiegò Brusca – era quello di compiere gesti dimostrativi: si parlava di spargere siringhe infette dall’Aids sulle spiagge di Rimini o infettare brioches nei supermercati, volevamo mettere in ginocchio il turismo, ma senza fare danni, poi tutto è stato stravolto».
«Qualche particolare sulle stragi – sostiene Brusca – l’ho appreso in seguito da Matteo Messina Denaro, che partecipò a quegli attentati. Mi disse che gli obiettivi erano stato individuati sui depliant turistici. In Sicilia era stato ipotizzato anche un attentato ai Templi di Selinunte, ma poi andarono avanti solo gli attentati sul continente».
La stagione delle stragi non vide estranea per niente la mafia trapanese che se oggi mantiene un suo ruolo preciso non è solo perchè suo capo è il latitante Matteo Messina Denaro, ma perchè probabilmente mantiene legami forti con i «poteri» occulti che girano attorno al mondo politico ed istituzionale, se non addirittura sono dentro la politica e le istituzioni.
Gli stessi poteri dei quali diversi magistrati parlano a proposito del fatto che: «Messina Denaro riesca ancora a sfuggire alla cattura». Tra i risvolti delle indagini sulle stragi quello sul camion che dal trapanese portò a Roma il tritolo degli attentati. Esiste ancora, ma viene usato lontano dall’Italia, «è finito nello Yemen». Mentre a guidarlo da Castelvetrano fino a Roma furono i mazaresi Consiglio, Giovanbattista e suo figlio, il tritolo era nascosto dentro una intercapedine realizzata dal lattoniere di Castellammare Gino Calabrò, l’uomo che compare anche sulla scena della strage di Pizzolungo del 1985, che uccise senza pietà, con Brusca, il capitano Paolo Ficalora, che doveva premere il timer per fare strage di poliziotti e carabinieri allo stadio olimpico di Roma in una di quelle domeniche pericolose del 1993.
Per fortuna l’innesco non funzionò, ma dovette funzionare qualcos’altro, perché quell’attentato, che seguiva quelli messi a segno a Roma, Milano e Firenze, venne cancellato dall’elenco delle cose da fare scritto dalla mafia, la Lancia Thema imbottita di tritolo venne rimossa dai mafiosi che chiamarono apposta un carro attrezzi e una volta svuotata dell’esplosivo venne rottamata.
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