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Libri e libri. L’amico ritrovato sulle tracce di Dylan e l’Amazzonia “spesa” bene

Nando dalla Chiesa il . Cultura, Diritti, Memoria, Società

Ma chi me lo doveva dire?

Proprio io che non perdo occasione di ironizzare sui torti inflitti all’Amazzonia da milioni di libri di perfetti sconosciuti, privi di cose da raccontare o del talento per farlo.

Io che ridevo come un matto quando vedevo quella rubrica di “Cuore” intitolata “Braccia rubate all’agricoltura”. Ecc. ecc.

Sì, insomma, proprio io mi sono trovato a tu per tu con un vecchio amico del cuore che dopo esserci persi di vista mi ha regalato con pudica indifferenza un libro a sua firma. Non un romanzo, non un saggio, ma un libro autobiografico e autoriflessivo. Sottotitolo: “Zibaldone mediterraneo e altre idiozie”. E allora pensi “vabbé, uno va in pensione, che male c’è – in fondo – a volersi mettere a scrivere?”.

Lo dici con il giusto spirito di comprensione per il coetaneo e per l’amico. Con la riserva mentale che prima o poi lo leggerai, quel libro; a un amico lo devi. Come al magistrato o al giornalista con la scorta. Come alla prof che racconta i progetti sulla legalità dei suoi ragazzi. Come a chi ti dice, con modi persuasivi, “mi aiuti Lei perché il sistema mi censura, vanno avanti solo i raccomandati”.

Arriva così la sera in cui, sopraffatto dalla stanchezza, scorgi sul mobile dell’ingresso il libro dalla copertina bianca e raffinata che si è fermato lì da un paio di mesi. E decidi che ti interessa di più leggerlo che continuare a lavorare. Massì, prendiamoci in mano il libro di Francesco. E prima di spegnere la luce leggiamone almeno la prefazione. Ohibò, l’ha scritta una giornalista curatrice di opere d’arte, devono essersi conosciuti al mare. In effetti, sfogliando le pagine, il libro è visibilmente figlio del Salento che Francesco mi decanta da anni con passione. E la prefazione è tutt’altro che banale.

Il fatto è che man mano che vado avanti nelle righe, nelle pagine, nei capitoli, il libro mi sembra bellissimo. Straripa di cose da raccontare, come la vita di molti di noi, ma lo stile e il pensiero fuoriescono dai flussi ordinari con lampi di immagini che tagliano trasversalmente il tempo. “Con due pistole d’oro ed argento ad affrontare i flutti sulla riva. Penelope e Telemaco con il vento in faccia prendevano il sole. Partenope era stanca di aspettare i pirati mentre i cavalli dormivano pigri sulla sabbia. Elettra stava guardando in faccia la sua canzone. L’Islanda era lontana e non destava preoccupazioni. Edipo e Giocasta cercavano un letto dove riposare; entrambi ciechi ed ebbri di ricordi….”.

Si resta quasi frustati, affascinati dalla prosa che pare psichedelica, ma che reca inconfondibile il timbro di Dylan, il mito insuperabile di questo gastroenterologo che decenni fa si impegnò a Milano e Pavia nella società civile (e poi anche in politica).

È lui il mito insuperato che riemerge in questo libro che è autobiografia e affettuosa confidenza, dove c’è spazio pure per i “quattro ragazzi di Liverpool”. Anche se al di sopra di tutto e di tutti, assolutamente “fuori concorso”, c’è un giovane uomo. Un ufficiale di Marina, di quella Marina che non si dette al Duce, inventore geniale, padre affettuoso dell’autore, portato via troppo presto da un cuore indocile. Un percorso lungo e frastagliato attraversa il libro. Di visi, di affetti, di riflessioni spigolose o malinconiche.

Chiudendo il libro ho ribaltato le mie ironie sull’Amazzonia. E mi rimprovero: quanti testi inutili hai presentato senza farti venire in mente gli alberi? Perché ti sono venuti in mente solo quando un amico 75enne ti ha dato la sua opera prima?

Ringrazialo piuttosto che con il suo talento non ha richiesto prima un po’ di legno in più per sé. E rifletti se saresti stato capace di scrivere quel che ha scritto lui.

Volete sapere qual è il titolo del libro? Non ve lo dico, tanto non è in commercio. Vi dico però come si chiama l’autore: Francesco Cupella, napoletano e milanese di adozione; studioso di Bob Dylan, per servirvi.

Il Fatto Quotidiano, Storie Italiane, 25/11/2024

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