Non ho nessun titolo per fare l’esegesi del pensiero di Roberto Scarpinato, ma credo di non forzare troppo le sue intenzioni se, conoscendone il percorso professionale e civile, dico che dentro quelle parole c’è in particolare l’esigenza morale e politica di non chiudere malamente la porta sul nostro più recente passato, quello che ha portato dalla cosiddetta fine della Prima Repubblica alla cosiddetta Seconda Repubblica.

La storia, che raramente procede per rotture e molto più frequentemente per continuità sostanziali vestite da rotture, nel nostro Paese ha fatto un “giro di boa” vertiginoso e drammatico tra il 1989 e il 1994, anni più volte evocati e studiati in questo blog e in questo giornale. Anni di terrorismo politico-mafioso, di stragi di innocenti, di “bombe del dialogo”, di sospetti per “indicibili accordi”. Anni nei quali, questa è la mia personalissima convinzione, forze decisive di questo Paese e internazionali hanno preferito salvare lo Stato piuttosto che la democrazia.

Che le istituzioni dello Stato siano “sacre”, come ha nuovamente ribadito con la consueta energia don Luigi Ciotti, audito pochi giorni fa dalla Commissione parlamentare antimafia, è fuor di dubbio: senza di esse restano soltanto caos e prepotenza. Ma qual è il prezzo “limite” che un Paese repubblicano e democratico può permettersi di pagare per la loro salvaguardia, evitando cioè di ritrovarsi con il “paziente morto” a dispetto di un “intervento chirurgico” perfettamente riuscito?

L’intervento chirurgico operato in quegli anni è indiscutibilmente riuscito: l’Italia ha evitato la balcanizzazione, le stragi sono cessate, la Cosa Nostra dei corleonesi è stata neutralizzata, l’Italia è rimasta nel gruppo di testa dell’Unione Europea, è entrata nell’euro, ha parzialmente riformato il proprio sistema politico, ecc. Ma il paziente, cioè la democrazia repubblicana intesa come libera partecipazione di tutti e tutte all’autogoverno delle proprie sorti presenti e future, se non “morta”, è da tempo agonizzante.

Una prova su tutte: la marcia mesta ma inarrestabile dell’astensionismo elettorale. Cresce il partito degli indifferenti, di chi ha smesso di credere che il voto sia strumento di cambiamento.

Una parte del “prezzo” pagato dall’Italia alla continuità istituzionale ha preso la forma della congiura del silenzio sulle responsabilità di un pezzo di Stato nella gestione illegale delle relazioni con alcuni poteri criminali, in funzione del mantenimento di precisi assetti di potere. Alcuni di questi poteri hanno avuto semplicemente la gattopardesca capacità di fingersi nuovi, per sopravvivere: una strategia curiosamente simile, anche se formalmente opposta, a quella di certi animali che si fingono morti per indurre il predatore a lasciar perdere.

Questo prezzo l’ha pagato la democrazia, lo hanno pagato lavoratori e lavoratrici sul piano dei salari e della sicurezza ed è stato pagato (anche) a quella “borghesia mafiosa” che il senatore Scarpinato aveva recentemente evocato intervenendo alla presentazione dell’ultima fatica letteraria di Saverio Lodato, Cinquanta anni di mafia.

La XIX Legislatura, dominata dalla destra erede della fiamma e del sistema berlusconiano, lavora alacremente per concludere definitivamente i cantieri di questa “grande opera infrastrutturale”, più devastante del Ponte-sullo-stretto: attaccando magistratura, informazione, scuola e seppellendo la verità sulle stragi in Commissione antimafia, con il concerto necessario di pezzi della stessa magistratura (fino al Csm) e di altre componenti robuste degli apparati statali.

Bisogna opporsi a tutto questo, come hanno ancora recentemente chiesto i famigliari delle stragi di mafia e terrorismo, straordinariamente riuniti a Roma presso la sala stampa di Montecitorio un paio di settimane fa.

E bisogna farlo non soltanto per dovere civile nei loro confronti, ma anche perché la verità, che è una forma di giustizia, possa nutrire la democrazia e quindi la Repubblica di nuova linfa, fatta di credibilità e responsabilità. L’alleanza tra le forze progressiste alternative alle destre dovrà caratterizzarsi necessariamente anche su questa questione oltre che su lavoro, ambiente, sanità e diritti civili.

Ho speranza che questo possa avvenire: nel libro-intervista L’imprevista, Elly Schlein, dialogando con Susanna Turco, ricorda i seminari sulla mafia seguiti all’Università di Bologna. Conosco bene quei seminari e la dedizione di chi li ha inventati e li coordina da anni: hanno sicuramente posto un seme duraturo nello spirito di chi li ha partecipati.

Il seme che furono le parole del giudice Nino Caponnetto, così simili a quelle di Scarpinato, quando, dopo aver egli stesso ceduto per un momento alla rassegnazione, chiamò l’Italia e soprattutto i giovani alla mobilitazione. Allora una intera generazione rispose. E ancora risponde.

Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello