“La lotta alla mafia è tornata all’età della pietra, prima di Falcone e Borsellino”
Riportiamo integralmente l’intervento dello scrittore e giornalista durante la presentazione del suo ultimo libro ‘Cinquant’anni di mafia’ tenutasi a Roma al Teatro Quirino.
Mi attraversano diversi stati d’animo: contentezza, soddisfazione per la vostra presenza. Contentezza per le parole che molti degli oratori hanno voluto indirizzare al mio lavoro in questi anni, ma anche tanta tristezza, tanti rimpianti, perché quando io iniziai, nel 1979, a fare il lavoro del giornalista al giornale L’Ora di Palermo, non sapevo che professionalmente e senza averlo chiesto a nessuno, sarei finito dentro un tunnel che continua ancora oggi. Questo tunnel iniziò con una prima targa stradale che diceva appunto “Dieci anni di mafia”.
“Dieci anni di mafia” l’avete sentito nominare qui dalle parole di Giovanni Falcone, che fu colpito. Ho riscritto queste due righe che lui ha detto anche questa sera insieme a noi, e mi sembra vivo, mi sembra di sentire la sua voce e di vedere la sua faccia. Lui disse: “Per la prima volta assistiamo a una risposta finalmente corale a questi problemi – la mafia – che parte di pochi o meno pochi funzionari dello Stato portano avanti”. La risposta corale. Tutto cominciò con una risposta corale.
Anni dopo, nel 2008, ebbi occasione di scrivere queste altre tre righe che, scusatemi, ve le devo leggere perché la pensavo così e la penso così ancora oggi. Mi è capitato di scrivere per un quaderno di Libera, l’organizzazione fondata da Don Luigi Ciotti, dedicato al giornalismo e alle mafie, nel 2008, e curato dal compianto collega Roberto Morrione della RAI. Apro una parentesi, che ormai non c’è più; fu lui, qualche anno dopo, a scoprire che la RAI di allora aveva mandato in archivio, senza mai mandarla in onda, l’intervista di Paolo Borsellino ai giornalisti francesi in cui parlava di Marcello Dell’Utri e dei cavalli che, per bocca di Marcello Dell’Utri, entravano e uscivano da quell’albergo; si trattava di una telefonata intercettata. In quegli anni, Marcello Dell’Utri era un fondatore di Forza Italia; la RAI non l’aveva mandata in onda.
Il collega Roberto Morrione, che la scoprì, pretese che fosse mandata in onda e quando la RAI non ne poté fare a meno, la mandò in onda a mezzanotte di un certo giorno, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Quali righe scrissi in quell’occasione? Queste:”In questi anni qualcosa non ha funzionato. Che cosa? Credo che si possa affermare, con un pizzico di paradosso, che la lotta alla mafia in Italia sia un’esperienza molto giovane che è invecchiata molto presto.” Perché molto giovane? Mi riferivo al periodo corale a cui faceva riferimento Falcone prima.
“Perché si dovette attendere sino alla fine degli anni ‘70 per vedere lo Stato italiano, per esclusiva iniziativa personale e spontanea di un gruppo di investigatori siciliani” (avrebbe chiosato Falcone, pochi o ancora meno pochi, che fossero) “finalmente onesti, affrontare un fenomeno che datava almeno dall’Unità d’Italia. E perché invecchiata molto presto? Perché di quel nuovo modo di combattere la criminalità organizzata si fece scempio, con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti”. 2008-2024, siamo adesso quindi a una ventina, diciotto anni, ora non so fare il conto a memoria. Sono trascorsi. E ci ritroviamo qui questa sera con un filo conduttore che lega gli interventi di tutti quelli che mi hanno preceduto: da Salvatore Borsellino, che naturalmente ringrazio per la determinazione e l’instancabile volontà, lui insieme alle Agende Rosse, di unirsi ai giovani di ANTIMAFIADuemila e ai giovani di Libera per quel minimo di coralità che ancora c’è in Italia su questo argomento.
Perché io dico, e non vi sembri un’affermazione forte, che noi siamo tornati all’età della pietra della lotta alla mafia. Siamo tornati a prima di Falcone e prima di Borsellino. Perché non solo non c’è più quella coralità, ma siamo tornati in una fase in cui lo Stato non vuole neanche prendere atto, come fu costretto allora a fare.
Penso a tutte le polemiche che ci furono a Palermo per la costruzione dell’aula bunker. A Roma dicevano a Falcone e Borsellino che pretendevano l’aula bunker perché sapevano che stavano portando alla sbarra mezzo migliaio di persone. Dicevano: “Ma dobbiamo spendere questi soldi? E poi che cosa ne faremo di quest’aula bunker?”.
I giornali siciliani aprirono un dibattito su cosa si sarebbe dovuto fare dell’aula bunker: chi diceva che bisognava farci convegni, chi diceva che bisognava farci concerti, chi proponeva di fare mini appartamenti, perché non si percepiva la necessità di affrontare finalmente in maniera seria questo fenomeno. E in un altro passaggio, Falcone dice – e merita di essere ricordato anche questo – “Quante volte, dopo ogni grande delitto, sentiamo dire: ‘Questa volta la mafia ha toccato il fondo, questa volta ha commesso un errore incalcolabile, niente sarà più come prima, questo omicidio è peggio dell’omicidio di Aldo Moro’.” E Falcone già allora osservava: “Vedrete che i fatti – e questo è un dato di fatto,” diceva lui, “confermeranno sempre che queste sono previsioni ottimistiche, se non addirittura in mala fede”.
Chi poteva, agli occhi di Falcone, in quegli anni in cui c’era apparentemente, diciamolo pure, una coralità – una coralità alla quale alcuni erano costretti, diciamo, obtorto collo – manifestare una cattiva fede nei confronti di quel progetto: di affrontare, per la prima volta, definitivamente la mafia? Esclusivamente pezzi e apparati dello Stato. Quelli dei quali mi aveva parlato all’Addaura all’indomani del suo fallito attentato, perché diversamente, in ogni paese civile al mondo, nel momento in cui un gruppo di magistrati affrontava per la prima volta con gli strumenti del diritto – non della repressione poliziesca o del golpe militare, come può accadere in un paese dell’America Latina – un fenomeno criminale così organizzato, teoricamente loro avrebbero dovuto registrare esclusivamente applausi rivolti alle loro persone. Accadde tutto il contrario.
Ma non voglio farla lunga. Dicevo, il filo che lega gli interventi di questa sera. È inutile che elenco tutti i protagonisti, sono qui e ci conosciamo tutti. La sensazione che si voglia assistere a un repulisti, una cancellazione.
L’avvocato Ligotti è stato, col suo bisturi avvocatizio preciso, a dirlo: “Vogliono fare scomparire la parola mafia.” E allora io vi faccio tre domande questa sera. C’è un nome che in tutta la serata non è stato pronunciato. Di chi è questo nome? È di colui il quale ha preso il posto, a tre anni di distanza dal suo arresto, di Matteo Messina Denaro. È la prima volta nella storia d’Italia che un capomafia viene arrestato e, l’indomani, le forze dell’ordine non dicono: “Ora il prossimo si chiama tal dei tali.” Noi siamo in una fase in cui, per le istituzioni italiane, Cosa Nostra non ha più un nome, non ha più un leader.
Sia anche esso brutto, come potrebbe essere Trump, non ce l’ha e non viene nominato. E perché non viene nominato? Perché nominarlo, anche da parte del Ministro dell’Interno Piantedosi, significherebbe che dopo lo devi cercare, dopo lo devi arrestare, e dopo devi rendere conto all’opinione pubblica di quanti anni questo è potuto rimanere latitante.
Quindi cosa si fa per far scomparire la cosa? Si cominciano a far scomparire i nomi. Un ministro dell’interno che non ha mai pronunciato la parola “mafia” e “mafiosi” da quando è stato nominato. Ha parlato di tante cose, di tante cose: di immigrati, di orari di apertura e chiusura delle discoteche, di raduni giovanili, di frontiere, di marina militare. Mafia, non pervenuta. E lo stesso dicasi per il Presidente del Consiglio; non se ne abbia a male.
Ci sarà una ragione per cui la Presidente del Consiglio, quando capita, casca il discorso, perchè non se ne può fare a meno su questi argomenti, ricorda ossessivamente che è entrata in politica il giorno della morte di Paolo Borsellino, ma non ha mai nominato Giovanni Falcone. A me questa cosa, francamente, non piace, perché nell’immaginario collettivo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono due gemelli di nome e di fatto che la sventura vuole che muoiano a 57 giorni di distanza.
Invece, se poi andiamo a voler essere maliziosi, una ragione del perché è facile ricordare Paolo Borsellino, e un po’ meno facile ricordare Giovanni Falcone, è che, come tutti sappiamo – anche io sapevo, e anche Paolo Borsellino sapeva che io lo sapevo – che lui da giovane era stato un dirigente del FUAN e del Movimento Sociale. E difatti, io che gli feci qualcosa come una mezza dozzina di interviste per l’Unità – unico giornale nazionale che in quegli anni lo intervistò all’inizio – poi anche Borsellino diventò Borsellino. Scherzando, perché era spiritosissimo, Paolo Borsellino mi diceva: “Il bello è che con queste interviste sull’Unità lei fa incazzare i suoi perché io sono fascista. Ma i miei si incazzano perché io le rilascio all’Unità e lei è comunista.” Questo per dare la misura di quanto non facesse velo a Paolo Borsellino l’aver avuto quegli ideali quando aveva deciso, all’interno del pool antimafia, di mettere da parte la politica e di combattere la mafia.
La Meloni deve imparare a capirlo, deve studiarlo, perché non si può fare lotta alla mafia pretendendo di utilizzare le vecchie assonanze, le vecchie simbologie, i vecchi legami, le vecchie radici sopite ma non troncate. Quindi lì si apre un problema. E si crea una commissione parlamentare antimafia, ma su questo gli interventi sono stati precisissimi, quindi ho poco da aggiungere, dove a presiederla si mette un colonnello di provata fede, una colonnella, non so, colonnello di provata fede che risponde al nome di Colosimo e che mette lei su Facebook la foto con il terrorista Ciavardini, stragista. Allora dice: è un problema, perché poi tu non mi puoi dire “ho fatto questa cosa così perché eravamo amici e abbiamo preso un caffè assieme”, perché se la metti su Facebook un po’ ti vanti di questa fotografia, e allora poi non puoi fare quella che casca dalle nuvole o dal pero.
Non puoi cascare dalle nuvole, non puoi cascare dal pero e non puoi intraprendere un’azione persecutoria nei confronti di Scarpinato, perché Scarpinato ti ha presentato un rapporto di 53 pagine in cui ti documenta non solo per la strage di Via d’Amelio, della quale tu ti occupi perché sei amica della famiglia Borsellino, perché Borsellino aveva quella appartenenza politica, mentre il resto poi forse non ci interessa, ma facendo riferimento a tutte le stragi che l’avevano preceduta, tu non puoi ignorare tutto questo e non puoi sollevare un conflitto di interessi di questa portata.
La commissione antimafia, per definizione, deve indagare su tutte le stragi che ci sono state in Italia. Non c’è mai stata una commissione antimafia in cui i democristiani, i socialisti, i comunisti – quelli che c’erano allora – dicevano: “No, di questo non se ne può occupare perché quello è amico mio, perché quello che è stato ammazzato in qualche modo riporta all’area mia politica di appartenenza.”
Questo significa usare la commissione antimafia come fosse una clava, come fosse il famoso manganello. Le commissioni parlamentari non sono manganelli istituzionali; le commissioni parlamentari sono organismi che teoricamente dovrebbero accertare la verità. Ma io qui non mi faccio illusioni, perché non penso che una commissione antimafia possa accertare quello che non è riuscita alla magistratura in tutti questi anni.
Noi, 32 anni dopo Capaci e via d’Amelio, abbiamo ancora tronconi di processi aperti che indagano sui depistaggi. Ma è fin troppo ovvio che tutto questo accade perché c’è una parte del Paese che alla lettura della verità non ci sta. E uno si chiede: ma perché non la accetta? È semplice, perché molte di quelle persone che parteciparono a quei fatti sono ancora vive e non accettano di lasciarsi processare ex post, ora che finalmente si sta creando in Italia una situazione per cui la parola mafia deve scomparire. Non dobbiamo più sapere chi ha preso il posto di Matteo Messina Denaro, perché l’equazione è: se la mafia non ha più un capo, allora la mafia è scomparsa.
Il dottor Di Matteo ha ricordato come a spalancare le porte istituzionalmente a certi scenari politici sia stata una sentenza della Cassazione, che ha voluto negare l’innegabile, ovvero che esisteva ed era esistita una trattativa Stato-mafia, portata avanti col plauso di tutti i giornali di centro-destra. L’avvocato Li Gotti ricordava i tre dell’Ave Maria che, negli anni Ottanta ai tempi di Berlusconi, portavano avanti la campagna denigratoria contro i magistrati. Quella tribù si è fortificata molto, si è allargata. Ci sono ancora; forse solo Lino Iannuzzici ha lasciati, ma gli altri ci sono ancora, e tanti altri, anche molto giovani, che si sono aggiunti. Scrivono su giornali che non vendono copie in Italia, ma vengono esclusivamente stampati per comparire di notte nelle rassegne stampa da cui partono gli ordini di certe campagne denigratorie.
C’è uno schieramento di giornali notturni che mette paura, come mette paura – e metterebbe paura a conoscere, ma non tocco questo argomento perché sennò poi la categoria mi rimprovera e mi dice che parlo male di alcuni colleghi – sarebbe interessante sapere quali sono le voci dei contributi che vengono dati dal finanziamento statale ai partiti, da chi e perché, visto e considerato che ognuno di questi giornali poi vende 500 copie.
Allora, la domanda è: siamo tornati all’età della pietra? Sì. Ma anche Falcone e Borsellino e il pool antimafia seppero risalire dall’età della pietra a quello che per un certo momento sembrò l’età dell’oro. E quel poco di coralità che riusciamo ad esprimere è un valore che vogliamo tutelare e difendere, nonostante qualunque governo, nonostante qualunque forma di eversione, sapendo che è un lavoro faticoso, ma che gli argomenti della ragione alla fine prevalgono sempre.
Fonte: Antimafia Duemila
Roma, 11 novembre, presentazione del libro ”Cinquant’anni di mafia” di Saverio Lodato
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