Indifferenti?
Gramsci diceva: “Odio gli indifferenti”, e come non dargli ragione.
Anche io, davanti a certi sguardi dei miei alunni mentre si parla di fatti di cronaca che ti fanno chiedere come sia possibile che accadano determinate cose, mi trovo a sentire crescere in me un risentimento. Poi però mi chiedo se davvero sia indifferenza, quella che vedo in loro, o se non sia altro.
Dalla notizia dell’omicidio di Santo Romano a quello della ragazzina dodicenne che in provincia di Roma ha accoltellato un compagno, reo d’aver fatto la spia all’insegnante – e quindi di essere un infame, la settimana si è aperta con spunti di riflessione che mi sembravano interessanti, invece nella stragrande maggioranza dei casi anziché commenti ho ricevuto in risposta solo silenzio.
Pochi sapevano di che cosa stessi parlando e già questo mi sorprendeva: le informazioni – vaghe e confuse – arrivavano da TikTok o dal tg guardato da alcune famiglie a cena. Capisco che non ci si debba per forza interessare alla cronaca, ma mi sembra che tutte le cose riportino a uno stesso punto: dove sono gli adulti intorno ai giovani?
Mi spiego. La molla che mi ha fatto scegliere di affrontare con loro queste notizie, è stato pensare che potenzialmente anche uno dei miei ragazzi si sarebbe potuto trovare in una situazione del genere: parlarne equivaleva nella mia testa a metterli sul chi va là, a farli riflettere su situazioni non normali che è bene evitare. Possibile che nessuno in casa abbia avuto il mio stesso timore?
Chiudo gli occhi e una carrellata di visi sfila nella mia mente. Il loro silenzio non è sempre disinteresse: spesso è l’incapacità di far fronte a queste situazioni, perché costretti ad essere adulti prima del tempo. C’è la rassegnazione di chi è cresciuto in contesti del genere e la protesta di chi sa che le cose sono così, ma non ci sta a finire nel calderone dei giovani che sono tutti uguali. Poi c’è chi è arrabbiato e stanco di sentire parlare della cronaca, perché vive cose ben peggiori ma si sente ignorato dal mondo. E questi sono i ragazzi che mi preoccupano di più, perché mi sembrano delle polveriere pronte a esplodere, soggetti disposti a fare tutto – prima o poi – pur di essere visti e riconosciuti da chi si occupa di altro e non di loro.
Una pistola non è una cosa da ragazzi, come non lo è un coltello. Che risorse hanno questi adolescenti per affrontare le difficoltà, per reggere alla frustrazione che deriva dall’essere scoperti meno bravi di quello che si vuole apparire? Per molti la sola risorsa è un gruppo che li creda forti. Peccato che il presupposto sia sbagliato: se per essere forte hai bisogno di un’arma, allora sì che sei debole.
I ragazzi non sono indifferenti: i ragazzi ci stanno chiedendo aiuto. Intanto aiuto a riconnettersi con le sensazioni e le conseguenze delle azioni che compiono. L’esposizione acritica a immagini di violenza (spesso estrema) reale e non, li porta a difendersi con l’assuefazione e l’incapacità di distinguere il vero da ciò che non lo è. E se tutto può essere finzione o “distanza” – perché filtrato dallo schermo – allora le conseguenze possono essere trascurate, visto che le cose con cui ci si deve misurare sono da una parte il vuoto di chi non vuole avvicinarli e, dall’altra, la paura (che loro scambiano per rispetto) di chi li avvicina per non subire.
Vista così la situazione cambia. Mi viene difficile adesso odiare questi “indifferenti”.
I veri indifferenti siamo noi quando, con il dito puntato, ci sentiamo sollevati dalla responsabilità di quello che accade intorno a noi perché non ne siamo noi materialmente gli autori.
Da odiare è il disinteresse degli interrogativi che non ci poniamo, accompagnato dalle etichette che ci affrettiamo a mettere. Non tutti sono giustificabili e non tutti si possono salvare, però qualcuno sì. Non scordiamocelo.
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