Si scrive Locride, si legge Brancaccio
«Può chiamare stasera, sul tardi? Mi scusi, ma ho cinquanta bambini cui badare oggi!». Ha inizio così il nostro incontro con suor Carolina, fra le urla dei ragazzini che tutto intorno chiedono le sue attenzioni. Siamo in Calabria, nella Locride, nel bel mezzo di una giornata di straordinaria normalità. Lei è suor Carolina Iavazzo, ideatrice e animatrice del centro “Don Pino Puglisi” , un luogo di aggregazione giovanile nato a metà strada fra San Luca e Bovalino.
«Questo è il deserto – dichiara suor Carolina – e siamo un’oasi in una terra che tutto intorno sembra abbandonata. Qui non ci sono centri di aggregazione, luoghi per la cultura e i giovani ». Almeno non c’erano sino al 2001, anno in cui il vescovo Gian Carlo Maria Bregantini scelse proprio lei, aversana d’origine, siciliana d’adozione, per questa esperienza di rinnovamento in Calabria. Nel cuore delle terre governate dalle ‘ndrine nacque un oratorio e laboratorio ricreativo per minori che suor Carolina gestisce insieme ad altri dieci operatori e tre religiose.
«Qui la pressione della ‘ndrangheta si sente – commenta suor Carolina – ma ha un peso notevole anche l’assenza delle Istituzioni». E’ una bella terra la Calabria letta attraverso le parole di suor Carolina, ma profondamente ferita. Così come la sua gente. «Non basta andare a messa per essere cattolici – ricorda – serve mettersi in gioco. Bisogna ripartire dai valori umani che ci identificano, innanzitutto come persone, prima ancora che credenti cattolici. Solo se abbiamo ben saldi questi valori – continua – il cattolicesimo può attecchire in maniera vera». Carolina custodisce con responsabilità questo insegnamento come l’eredità più difficile ricevuta da Don Puglisi, il prete ucciso dalla mafia a Brancaccio (Pa) il 15 settembre del 1993. L’incontro con il sacerdote le ha cambiato la vita e indicato la strada.
«Tutto cambiò una sera – ricorda suor Carolina –era il giorno del suo compleanno, lo attendevamo e invece lui non tornò; lo avevano ucciso. Nei giorni successivi, passati lo sconforto e la rabbia, capì che quel sangue andava raccolto e fatto diventare impegno concreto. Don Puglisi – ricorda Carolina – è morto perché ha insegnato a quei giovani siciliani il valore della libertà ». Si scrive Locride e si legge Brancaccio; la Calabria e la Sicilia, nel passato e nel presente di suor Carolina, sono due facce della stessa medaglia: «credo che buona parte del Sud soffra dello stesso male, la mancanza di libertà. E in questa direzione anche la Chiesa dovrebbe dare dei segnali ancora più forti».
«Qui la ‘ndrangheta ha base familiare, andare contro le ‘ndrine,spesso significa andare contro gli affetti – aggiunge». Ma una via d’uscita c’è. «A volte – conclude suor Carolina – credo che sia la vita ad avermi messo davanti agli incontri giusti. Bisogna ascoltare senza pregiudizi, quindi, tornare sulla strada. Anche la Chiesa dovrebbe uscire dalle sagrestie e andare incontro alle persone, fare breccia anche in coloro che sembrano lontani. Nessuno è destinato, per sua natura, al male».
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