Il rigetto delle convalide dei trattenimenti disposti ai sensi del Protocollo Italia-Albania
Nota ai provvedimenti di rigetto delle richieste di convalida dei trattenimenti disposti dalla Questura di Roma ai sensi del Protocollo Italia-Albania, emessi dal Tribunale di Roma, sezione specializzata nella protezione internazionale, il 18 ottobre 2024.
Premessa sulla primazia del diritto dell’Unione sul diritto nazionale difforme
Per comprendere la ratio sottesa ai provvedimenti in commento è prima di tutto necessario richiamare brevemente le nozioni fondamentali in materia di prevalenza del diritto dell’Unione europea sul diritto nazionale con esso contrastante.
È noto che, in conformità all’articolo 4 del Trattato sull’Unione europea, gli Stati membri «adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione».
Si tratta del principio di leale cooperazione, il quale impone allo Stato, inteso come organo esecutivo e legislativo, di dare effettiva attuazione al diritto dell’Unione, al contempo affidando allo stesso Stato, inteso come organo giurisdizionale, il controllo sull’osservanza del diritto dell’Unione all’interno dell’ordinamento.
Il giudice nazionale, in qualità di giudice comune di diritto europeo, è infatti espressamente incaricato di vigilare sull’applicazione e sull’osservanza del diritto dell’Unione nell’ordinamento giuridico nazionale, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia [1].
La primazia del diritto dell’Unione costituisce uno degli assi portanti dell’ordinamento giuridico europeo, sino dalla prima fase del diritto comunitario e precisamente a partire dalla storica sentenza della Corte di giustizia, 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. E.N.E.L., la quale ha affermato che «il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa comunità. Il trasferimento, effettuato dagli stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia».
La conseguenza immediata è che, nel caso di conflitto tra una norma dell’Unione che risulti immediatamente applicabile negli Stati membri ‒ perché chiara, precisa e incondizionata ‒ e una norma nazionale, il giudice nazionale, in qualità di giudice comune europeo, dovrà applicare integralmente il diritto dell’Unione e tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, e al contempo disapplicare ‒ o meglio, non applicare ‒ la norma interna contrastante con quella europea, sia essa anteriore o successiva a quest’ultima.
Il sistema della disapplicazione del diritto nazionale contrastante con il diritto (già comunitario e poi) dell’Unione si è consolidato nella giurisprudenza della Corte di giustizia a partire dalla sentenza ‒ anch’essa un pilastro del sistema giuridico europeo ‒ del 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato c. SpA Simmenthal, e costituisce, ormai da quarant’anni, l’indiscusso sistema di tutela dell’efficacia del diritto dell’Unione nello Stato membro. Un sistema che, tra l’altro, caratterizza il diritto europeo dell’Unione rispetto al diritto europeo proveniente da fonti sovranazionali extra-unionali, come il Consiglio d’Europa (i.e., la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e la Corte E.D.U.), che pure sono vincolanti per lo Stato aderente in base alle cessioni di sovranità previste in Costituzione (in particolare, negli articoli 11 e 117, quest’ultimo nel testo modificato dall’art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ma, diversamente dal diritto dell’Unione, non prevedono una forma di applicazione diretta, con contestuale disapplicazione del diritto nazionale difforme, richiedendo invece, in caso di conflitto con una norma nazionale, la sollevazione di una questione di legittimità costituzionale per contrasto con il diritto europeo e quindi, a monte, per contrasto con le norme costituzionali in materia di cessione di sovranità.
Per concludere, il diritto dell’Unione è dotato di efficacia diretta nello Stato italiano e, quando sorge un conflitto tra esso e una norma nazionale, anteriore o successiva, il giudice italiano, in qualità di giudice comune europeo, ha l’obbligo di applicare la norma europea e di non applicare quella nazionale, dovendo a tal fine verificare che la fonte normativa europea sia chiara, precisa e incondizionata.
Requisiti, questi, che a loro volta possono essere esauditi da diverse tipologie di fonti normative dell’Unione: i Trattati istitutivi e i regolamenti senza dubbio, ma anche le sentenze della Corte di giustizia e, quel che è più importante, le direttive, quando esse: a) siano dotate di tali requisiti di chiarezza e precisione; b) attribuiscano al privato un diritto non condizionato, per la sua esistenza e attuazione, dall’intervento di altri atti dell’Unione stessa o degli Stati membri; c) siano già state recepite dallo Stato, mediante una normativa interna di armonizzazione, o e sia comunque scaduto il termine fissato dall’Unione per il loro recepimento.
L’unica eccezione che può porsi alla disapplicazione del diritto interno contrastante con il diritto UE dotato di effetto diretto è data dalla eventualità che le disposizioni del diritto UE si pongano in contrasto «con i principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona»; in tal caso (e solo in tal caso), sarebbe possibile opporre un controlimite alla penetrazione del diritto dell’Unione nell’ordinamento italiano (cfr. Corte cost., sentenze n. 232 del 1989, n. 170 del 1984 e n. 183 del 1973; evenienza definita «sommamente improbabile» da Corte cost., ord. N. 24 del 2017). In questo caso, peraltro, il giudice comune nemmeno potrebbe opporre direttamente il “contro-limite”, applicando il diritto italiano a detrimento dell’applicazione del diritto UE; in questo caso, infatti, «sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell’ipotesi normativa si realizzi» (Corte cost. ordinanza n. 24 del 2017).
La normativa dell’Unione rilevante nel caso di specie
È utile, a questo punto, chiarire che la normativa dell’Unione applicata dal Tribunale di Roma, con contestuale disapplicazione del diritto nazionale difforme, è costituita da direttive in materia di accoglienza, delle quali non è in discussione l’efficacia diretta perché si tratta di direttive già recepite dallo Stato italiano con leggi di recepimento precedenti rispetto a quella disapplicata nel caso di specie (i.e., il protocollo Italia- Albania e la relativa legge di ratifica), la quale, pertanto, si è posta in constato sia con le direttive dell’Unione sia con le leggi italiane che le hanno già recepite.
È utile anche chiarire che il contrasto non riguarda, in questo caso, i presupposti di merito per il riconoscimento della protezione internazionale a una persona migrante, ma solo il tipo di procedura, ordinaria o “accelerata di frontiera”, utilizzata dall’amministrazione statale per l’esame della relativa richiesta.
La prima direttiva rilevante in materia è la 2005/85/CE, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, la quale, come si è detto, è già stata recepita nell’ordinamento italiano con il decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, il quale prevede, all’articolo 28 bis, la possibilità, in determinate condizioni, di seguire una procedura accelerata: consistente nell’esame della domanda del richiedente protezione internazionale, immediatamente quando egli è sorpreso nel tentativo di attraversare la frontiera nazionale e, in caso di rigetto, a stretto giro, della domanda da parte della commissione di prima istanza, nel rimpatrio immediato della persona migrante, purché esso avvenga verso un paese che possa considerarsi sicuro.
Le condizioni per l’applicazione della “procedura accelerata di frontiera”, per come fissate dalla normativa italiana (i.e., il citato articolo 28 bis) di recepimento della direttiva 2005/85/CE, sono le seguenti:
1. che la domanda di protezione internazionale sia presentata da un richiedente direttamente alla frontiera o nelle zone di transito, dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli (art. 28 bis, cit., lett. b);
2. che la domanda di protezione internazionale sia presentata da un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicuro ai sensi dell’articolo 2-bis (art. 28 bis, cit., lett. b-bis);
Quanto alla designazione di un paese come “paese sicuro” ai fini del rimpatrio, con “procedura accelerata di frontiera”, della persona migrante, viene anzitutto in rilievo l’articolo 2-bis dello stesso decreto legislativo, il quale prevede quanto segue:
1. Con decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, è adottato l’elenco dei Paesi di origine sicuri sulla base dei criteri di cui al comma 2. L’elenco dei Paesi di origine sicuri è aggiornato periodicamente ed è notificato alla Commissione europea.
2. Uno Stato non appartenente all’Unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone.
3. Ai fini della valutazione di cui al comma 2 si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui è offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante:
a. le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate;
b. il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma il 19 dicembre 1966, ratificato ai sensi della legge 25 ottobre 1977, n. 881, e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, in particolare dei diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della predetta Convenzione europea;
c. il rispetto del principio di cui all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra;
d. un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.
4. La valutazione volta ad accertare che uno Stato non appartenente all’Unione europea è un Paese di origine sicuro si basa sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, che si avvale anche delle notizie elaborate dal centro di documentazione di cui all’articolo 5, comma 1, nonché su altre fonti di informazione, comprese in particolare quelle fornite da altri Stati membri dell’Unione europea, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.
5. Un Paese designato di origine sicuro ai sensi del presente articolo può essere considerato Paese di origine sicuro per il richiedente solo se questi ha la cittadinanza di quel Paese o è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova
In merito alla discrezionalità dello Stato membro, nel redigere l’elenco dei paesi considerati sicuri, è successivamente intervenuta la direttiva 2013/32/UE, anch’essa già recepita nell’ordinamento italiano con decreto legislativo 8 agosto 2015, n. 142, la quale prevede, all’articolo 37, proprio in merito alla designazione nazionale dei paesi terzi quali “paesi di origine sicuri”, quanto segue:
1. Gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta, a norma dell’allegato I, di designare a livello nazionale paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale.
2. Gli Stati membri riesaminano periodicamente la situazione nei paesi terzi designati paesi di origine sicuri conformemente al presente articolo.
3. La valutazione volta ad accertare che un paese è un paese di origine sicuro a norma del presente articolo si basa su una serie di fonti di informazioni, comprese in particolare le informazioni fornite da altri Stati membri, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti;
È quindi del tutto chiaro che, in base alle due direttive in materia di accoglienza, 2005/85/CE e 2013/32/UE, entrambe dotate di efficacia diretta nell’ordinamento ‒ perché già recepite dallo Stato italiano con i decreti legislativi 28 gennaio 2008, n. 25, e 8 agosto 2015, n. 142 ‒, lo Stato membro non gode di una discrezionalità politica ma solo di una discrezionalità vincolata, di carattere tecnico, nella designazione di un paese come “paese di origine sicuro”, al fine del rimpatrio immediato di una persona migrante con “procedura accelerata di frontiera”; e che in nessun caso possono essere designati come “sicuri”, paesi nei quali non siano rispettati i diritti e le libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, e nei quali vi sia il pericolo di subire persecuzione, tortura o di altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, anche se solo in determinate parti del parti del territorio o nei confronti di determinate categorie di persone.
Per chiarire definitivamente il concetto ‒ e cioè che si tratta di una discrezionalità vincolata, non politica e soggetta al controllo giurisdizionale del giudice nazionale cha agisce quale giudice comune europeo ‒ è recentemente intervenuta la Corte di giustizia dell’Unione europea – Grande Sezione del 4/10/2024, causa C-406/22, la quale ha enucleato i seguenti principi di diritto:
1. la designazione di un paese come paese di origine sicuro dipende dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti, e che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno;
2. la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio e senza eccezioni per categorie di persone;
3. il giudice nazionale che esamina la legittimità di una decisione amministrativa con cui si nega la concessione della protezione internazionale deve rilevare la violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro.
Il fatto che la CGUE si sia pronunciata sulla specifica questione dell’impossibilità di qualificare come “paese di origine sicuro” un paese terzo in cui alcune parti del territorio non risultano sicure, non esclude, peraltro, la pertinenza del richiamo operato dai giudici romani alla sentenza del 4 ottobre 2024, anche con riferimento al mancato rispetto dei diritti fondamentali di determinate categorie di persone.
È di tutta evidenza, infatti, che il ragionamento svolto dalla Corte di giustizia delinea una nozione di paese sicuro, in base alla quale la “sicurezza” deve essere un requisito esistente in tutte le parti del paese terzo e per tutte le categorie di persone da là provenienti, per l’ovvia ragione che un paese che attua sistematicamente forme di persecuzione nei confronti di determinate categorie di persone, come minoranze etniche o religiose, oppositori politici o persone lgbt, è chiaramente da considerarsi un paese “non sicuro” nella sua intera estensione, il che supera e “assorbe” eventuali problematiche circoscritte a singole porzioni del suo territorio (problematiche che potrebbero essere rilevanti, ad esempio, nel caso di conflitti locali o di zona).
I chiarimenti forniti dalla Corte di giustizia, con la sentenza del 4 ottobre 2024, rendono ad oggi del tutto evidente il significato della normativa dell’Unione sulla nozione di “paese di sicuro”, andando a dissipare ogni residuo dubbio interpretativo, in quanto, come ha riconosciuto anche la Corte costituzionale, con la sentenza 28 del 2010, «è da escludere il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia» (la Corte costituzionale, nell’affermare questo principio, fa riferimento alla propria consolidata giurisprudenza, e anche a quella della stessa CGUE, ex plurimis Corte di giustizia, sentenza 27 marzo 1963, in causa C-28-30/62, Da Costa; Corte costituzionale, ordinanza n. 103 del 2008).
Il protocollo Italia-Albania
Il Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania, per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, è stato fatto a Roma il 6 novembre 2023 ed è stato ratificato con la legge 21 febbraio 2024, n. 14.
L’articolo 4 del Protocollo prevede:
«1. La Parte italiana può realizzare nelle Aree le strutture indicate nell’Allegato 1. Le Parti che il numero totale di migranti presenti contemporaneamente nel territorio albanese in applicazione del presente Protocollo non potrà essere superiore a 3.000 (tremila).
2. Le strutture di cui al paragrafo 1 sono gestite dalle competenti autorità della Parte italiana secondo la pertinente normativa italiana ed europea. Le controversie che possano nascere tra le suddette autorità e i migranti accolti nelle suddette strutture sono sottoposte esclusivamente alla giurisdizione italiana.
3. Le competenti autorità albanesi consentono l’ingresso e la permanenza nel territorio albanese dei migranti accolti nelle strutture di cui al paragrafo 1, al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse. Nel caso in cui venga meno, per qualsiasi causa, il titolo della permanenza nelle strutture, la Parte italiana trasferisce immediatamente i migranti fuori dal territorio albanese. I trasferimenti da e per le strutture medesime sono a cura delle competenti autorità italiane.
4. L’ingresso dei migranti in acque territoriali e nel territorio della Repubblica di Albania avviene esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane. All’arrivo nel territorio albanese, le autorità competenti di ciascuna delle Parti procedono separatamente agli adempimenti previsti dalla rispettiva normativa nazionale e nel rispetto del presente Protocollo».
Il successivo articolo 6 prevede:
«5. Le competenti autorità italiane adottano le misure necessarie al fine di assicurare la permanenza dei migranti all’interno delle Aree, impedendo la loro uscita non autorizzata nel territorio della Repubblica d’Albania, sia durante il perfezionamento delle procedure amministrative che al termine delle stesse, indipendentemente dall’esito finale.
6. In caso di uscita non autorizzata dei migranti dalle Aree, le autorità albanesi li ricondurranno nelle stesse. I costi che derivano dall’attuazione del presente paragrafo sono sostenuti della Parte italiana conformemente all’articolo 10, paragrafo 1 del presente Protocollo».
La legge di ratifica a sua volta prevede, all’articolo 4:
«1. Ai migranti di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera d), del Protocollo si applicano, in quanto compatibili, il testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, il decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, il decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, e la disciplina italiana ed europea concernente i requisiti e le procedure relativi all’ammissione e alla permanenza degli stranieri nel territorio nazionale. Per le procedure previste dalle disposizioni indicate al primo periodo sussiste la giurisdizione italiana e sono territorialmente competenti, in via esclusiva, la sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea del tribunale di Roma e l’ufficio del giudice di pace di Roma. Nei casi di cui al presente comma si applica la legge italiana».
La decisione del Tribunale di Roma
Dall’esame del testo del protocollo, e della relativa legge di ratifica, emerge chiaramente che, in primo luogo, si tratta di una norma che si pone in contrasto con il primo requisito fissato dalla lettera b) del citato articolo 28 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, il quale presuppone che il richiedente sia «stato fermato per aver eluso o tentato di eludere i […] controlli di frontiera», mentre, nel caso di specie, si tratta di persone condotte in Albania dopo essere state imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso e rintracciate anche a seguito di operazioni di ricerca o soccorso in mare.
Sì che le circostanze e modalità di arrivo dei migranti presso il territorio albanese, dove dovrebbe essere attuata la “procedura accelerata di frontiera”, esulano completamente dai requisiti fissati dal citato articolo 28, in recepimento della direttiva 2005/85/CE .
Né potrebbe sostenersi che il richiamo contenuto all’articolo 1 della legge di ratifica ‒ secondo il quale «ai migranti di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera d), del Protocollo si applicano, in quanto compatibili, il decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, il decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142» ‒ possa fornire una base legale per equiparare i migranti condotti in Albania da acque extraterritoriali, ove sono stati rintracciati anche a seguito di operazioni di soccorso in mare, ai migranti fermati nell’atto di oltrepassare la frontiera italiana.
Perché, se si ragionasse in questo modo, si conferirebbe al diritto nazionale la facoltà di disapplicare una direttiva europea (non solo direttamente applicabile, ma già recepita), e quindi di riportare il diritto italiano ‒ in una materia, qual è quella dell’immigrazione, con specifico riferimento ai rimpatri, pacificamente soggetta alla primazia del diritto dell’Unione ‒ a uno stato di mancata trasposizione di una direttiva già recepita, e anzi di conflitto aperto con la direttiva stessa, così attuando un inammissibile cortocircuito istituzionale che avrebbe, come effetto, quello di neutralizzare l’efficacia diretta e il primato del diritto dell’Unione, per riaffermate l’opposto primato del diritto nazionale difforme: un precedente pericolosissimo per il sistema giuridico europeo nel suo complesso.
E questo vale anche in materia di designazione dei paesi considerati sicuri
Si è detto al riguardo che, applicando i principi vincolanti delle direttive in materia di rimpatri, come recentemente riaffermati, in modo definitivo e inequivocabile, dalla Corte di giustizia, con la sentenza del 4 ottobre 2024, la designazione di un paese come paese di origine sicuro dipende dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti, e che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno; e che la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio, sì che un paese terzo non può essere designato come “paese di origine sicuro” qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali per una siffatta designazione o se tali requisiti difettino nei confronti di determinate categorie di persone.
La Corte ha inoltre, come pure si è detto, espressamente affermato che il giudice nazionale che esamina la legittimità di una decisione amministrativa con cui si nega la concessione della protezione internazionale deve rilevare la violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro.
Ne deriva che, del tutto correttamente, Il Tribunale di Roma ha vagliato la correttezza dell’inserimento, nell’elenco dei paesi considerati “sicuri”, dei paesi di provenienza dei migranti trattenuti in Albania e destinati al rimpatrio con procedura accelerata in base al protocollo Italia- Albania, segnatamente l’Egitto e il Bangladesh.
Con riferimento all’Egitto, il Tribunale ha rilevato che, nelle conclusioni della scheda-Paese dell’istruttoria del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale per l’aggiornamento del sopra menzionato decreto interministeriale, basate su informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento, l’Egitto è definito Paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune categorie di persone: oppositori politici, dissidenti, difensori dei diritti umani o coloro che possono ricadere nei motivi di persecuzione di cui all’art 8, comma 1, lettera e) del D.lvo 19 novembre 2007, n. 251.
Pertanto, in ragione dei principî affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, l’Egitto non può essere riconosciuto come Paese sicuro.
Con riferimento al Bangladesh, il Tribunale ha rilevato che, nelle conclusioni della scheda-Paese dell’istruttoria del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale per l’aggiornamento del sopra menzionato decreto interministeriale, basate su informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento, il Bangladesh è definito Paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune categorie di persone: appartenenti alla comunità LGBTQ+, vittime di violenza di genere incluse le mutilazioni genitali femminili, minoranze etniche e religiose, accusati di crimini politici, condannati a morte, sfollati climatici.
Pertanto, in ragione dei principî affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, nemmeno il Bangladesh può essere riconosciuto come Paese sicuro
Conclusioni
Il sintetico esame che precede, delle questioni giuridiche sottese alla mancata convalida dei trattenimenti delle persone migranti in base al Protocollo Italia – Albania, rende del tutto evidente che la decisione del Tribunale di Roma era una decisione vincolata e che, nel contesto del sistema giuridico europeo, non sarebbe stata possibile alcuna decisione diversa.
Non solo. Non sarebbe possibile una decisione diversa nemmeno se venisse varato un decreto-legge ad hoc per “sigillare” l’elenco dei Paesi considerati “sicuri”, così attribuendo la competenza della designazione dei paesi sicuri direttamente all’esecutivo, per il tramite di un provvedimento avente forza di legge, e lasciando al Ministero degli esteri solo il periodico aggiornamento dell’elenco.
Infatti, il principio di primazia del diritto dell’Unione sul diritto nazionale è riferito al diritto italiano nel suo complesso, indipendentemente dalla natura primaria (i.e., di legge ordinaria) o secondaria (i.e., regolamenti governativi) della fonte del diritto nazionale.
Quand’anche l’elenco dei Paesi sicuri fosse contenuto, dunque, non più in un decreto ministeriale ma in un decreto-legge, questo non cambierebbe l’obbligo del giudice italiano, in qualità di giudice comune europeo, di disapplicarlo, in caso di acclarato contrasto con il diritto dell’Unione.
Note
[1] Cfr., inter alia, Corte giust. ordinanza 6 dicembre 1990, causa C-2/88, Imm., J.J. Zwartveld e altri, § 10.
* Giudice del Tribunale di Torino
** Giudice del tribunale di Milano
Fonte: Questione Giustizia
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