Condanna di Grigoli e Messina Denaro, i retroscena del processo
È stato un processo dove dentro è sfilata la mafia, l’imprenditoria, la politica, le connessioni malavitose, le connivenze, ma con esse anche la sottovalutazione «studiata a tavolino» di una parte di società civile alla quale faceva, e fa, piacere «stringere accordi con Cosa Nostra». Con quella di Matteo Messina Denaro, poi, in modo particolare. Perchè è quella che ha «garantito» e «garantisce» ancora, sennò non si spiegherebbe il perchè di questa latitanza sempre meno dorata continui a resistere ai colpi inferti dalle forze dell’ordine.
Sono stati fatti i nomi di capi mafia, a parte quello dell’imputato latitante Messina Denaro, di suo padre, «don Ciccio», di Bernardo Provenzano, di Filippo Guattadauro, il cognato del capo mafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro. Sono stati fatti i nomi di politici, dell’ex presidente della Regione Totò Cuffaro andato a chiedere a Grigoli il favore di vendere i vini della sua produzione nei supermercati Despar, o ancora quelli dell’ex deputato regionale, sempre della cordata cuffariana, Francesco Regina, andato da Grigoli a chiedere sostegno elettorale. Dentro il processo anche il nome di Vito Mazzara, il killer della mafia trapanese, l’uomo che avrebbe ucciso Mauro Rostagno e che sconta l’ergastolo per tanti altri delitti, e che a Grigoli andava a vendere la ricotta sempre per i supermercati.
Si è contato tanto denaro, una disponibilità superiore ad ogni aspettativa quella posseduta da Giuseppe Grigoli che nel frattempo dalla cella riusciva pure a corrispondersi con alcune delle sue amanti, sfondando la censura del carcere: donne e denaro, soldi e mafia. Grigoli messo alle strette, dinanzi all’evidenza dei fatti, ha dovuto piegarsi, ma ha raccontato la verità a modo suo, dicendo di essere una vittima, «pagavo il pizzo ma mi trattavano bene» ha detto ai giudici, facendosi spesso venire la lacrimuccia in volto.
È stato il processo dove è venuta fuori la strategia investigativa per arrivare al super latitante. C’è stata la deposizione durata otto ore dell’allora capo della Mobile, oggi primo dirigente della Polizia, Giuseppe Linares: l’indagine su Grigoli non è altro che uno dei «tasselli» del mosaico che si va componendo e dal quale emerge la figura di Matteo Messina Denaro, il boss che ripulite le mani del sangue dei morti ammazzati è diventato capo di una holding imprenditoriale. Imprenditori, professionisti, colletti bianchi, politici, sono caduti nella rete di queste indagini, tutti alleati del latitante, qualcuno addirittura sentito dire di esserne «un devoto».
Sono le indagini dove la Dia ha impiegato un sofisticato gruppo di investigatori, una intelligence comandata da un colonnello della Finanza che ha letto migliaia di fatture, traducendo ogni contenuto, e trovando le tracce che portavano alla mafia, alle casseforti illegali, dove si ripuliva il denaro sporco.
Sono indagini che conosce bene l’ex pm Roberto Piscitello, oggi al ministero di Grazia e Giustizia: «È una pronuncia di colpevolezza importante – dice riassumendo il lavoro da lui svolto da magistrato – perchè sancisce l’esistenza di un “tesoro” che era nelle mani di Matteo Messina Denaro, c’è il riconoscimento che le ricchezze di Grigoli erano del boss latitante, ma c’è anche un’altra circostanza di grande rilevanza, quella che questo processo per la prima volta sancisce l’esistenza di una alleanza tra la mafia più potente e l’imprenditoria più ricca della provincia di Trapani, è una sentenza che grida a tutti come “Cosa Nostra non è invincibile” e questo grazie al lavoro di agenti e investigatori bravi e capaci, che hanno messo insieme i “pizzini” nel tempo trovati, grazie al lavoro di magistrati spesso malguardati».
Gli investigatori hanno seguito le tracce lasciate da un patrimonio immenso, «il solo centro commerciale Belicittà – conclude Piscitello – era capace di fatturare 250 mila euro al mese».
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