Video didn’t kill the radio star. 100 anni di radio in Italia
Ma gli autori della più celebre canzone sulla radio – il gruppo inglese The Buggles, nel 1979 – avevano torto. Quell’omicidio non è mai avvenuto, la radio ha passato molti talenti alla televisione nella prima parte della seconda età del secolo scorso ma mai ne ha sofferto, la radio sta attraversando la rivoluzione digitale spesso anticipandola e affiancandola, non ha mai perso alcunché, ha inventato prodotti nuovi, si è adeguata ai tempi pur proteggendo il valore del proprio passato.
Il secolo della radio che ricorre come data ufficiale il 6 ottobre è, ovviamente, cominciato prima, quando gli scienziati, o se vogliamo chiamiamoli inventori, compresero la possibilità di far viaggiare le parole attraverso le onde magnetiche.
L’intuizione di Nikola Tesla, lo scienziato serbo forse più geniale di tutti ma disorganizzato e sfortunato, fu messa meglio a punto dallo scozzese James Maxwell e dal tedesco Rudolf Hertz, ma chi capì le potenziali applicazioni pratiche e i possibili ricavi furono due fisici: l’italiano Gugliemo Marconi e il russo Alexander Popov. Tra il 1895 ed il 1896 Popov costruì un ricevitore in grado di captare segnali emessi da lontano e ne dimostrò il funzionamento durante alcuni esperimenti a San Pietroburgo.
In Italia però, a Pontecchio Bolognese, Marconi non stava certo con le mani in mano e in qualche mese riuscì a potenziare il segnale del suo apparecchio.
Le autorità italiane però non avevano intuito le potenzialità delle ricerche di Marconi e dunque l’inventore italiano dovette trasferirsi a Londra per proseguire il lavoro. Il 5 marzo del 1896 così Guglielmo Marconi presentò la richiesta per brevettare le proprie migliorie alla telegrafia senza fili – ossia il primo prototipo della radio – anticipando di qualche settimana la prima trasmissione radio di Popov.
La corsa all’invenzione del secolo era stata vinta da Marconi (anche se in Russia tutt’ora non sono molto convinti). E, come con Edison, chi aveva perso più di tutti era stato Tesla, che a modo suo aveva capito già tutto. E capìrono velocemente tutto i regimi totalitari del tempo, e più di tutti lo capì il regime fascista in Italia.
La mente dell’operazione fu il ministro della cultura popolare e propaganda, il Minculpop, Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, già ministro per la stampa e la propaganda. Ciano prese a modello la Germania di Hitler e capì che il controllo della sola stampa in presenza di un mezzo così moderno come la radio non bastava più. Nello stesso modo mise sotto controllo il cinema e il teatro e cercò di farlo con la musica, il settore che più gli risultò ostile.
Anche allora, proprio come oggi, il regime fascista voleva comandare il cambiamento di un popolo, perché questo è il metodo di chi non pratica la democrazia, ieri oggi e, forse, domani.
E fu la musica a segnare la data del 6 ottobre 1924, scelta dall’Unione Radiofonica Italiana, di proprietà di Marconi, per diffondere i primi programmi a diffusione nazionale.
Quella sera andò così: intorno alle 21 la voce della prima speaker, Maria Luisa Boncompagni, annunciò l’apertura dei programmi.
Dopo di lei, il primo annuncio, letto dallo studio romano di palazzo Corrodi da Ines Viviani Donarelli, recitava così: «URI (Unione Radiofonica Italiana). 1-RO: stazione di Roma. Lunghezza d’onda metri 425. A tutti coloro che sono in ascolto il nostro saluto e il nostro buonasera. Sono le ore 21 del 6 ottobre 1924. Trasmettiamo il concerto di inaugurazione della prima stazione radiofonica italiana, per il servizio delle radio audizioni circolari, il quartetto composto da Ines Viviani Donarelli, che vi sta parlando, Alberto Magalotti, Amedeo Fortunati e Alessandro Cicognani, eseguirà Haydn dal quartetto “Opera 7”, I e II tempo».
La musica sarebbe stata per sempre grande protagonista della radio, ma Ciano – la vera mente della propaganda mussoliniana come hanno raccontato in una trasmissione televisiva memorabile poco tempo fa Corrado Augias e Giordano Bruno Guerri – concepiva il nuovo strumento come un mezzo rivoluzionario per soggiogare il popolo. Mussolini ne era meno convinto. E Ciano ebbe l’idea che avrebbe fatto diventare la radio un mezzo di diffusione popolare: la radio rurale. E il progetto si rivelò utile,ma tardò a diffondersi perché i contadini di apparecchi radio ne compravano ancora pochi. Allora il Ministero mise in produzione apparecchi di radio rurale distribuiti nelle campagne per 6 anni, dal 1933 al 1936. E le campagne si fascistizzarono velocemente.
Nacque l’EIAR, la radiofonia di stato, dove furono ideate anche forme di varietà a quiz che la TV avrebbe un giorno riadattato, si fecero conoscere attori e cantanti eccellenti, si idearono le cronache sportive. Ma soprattutto, dopo pochi anni, come un ciclone i programmi radiofonici divennero la colonna sonora della grande tragedia della guerra.
La radio fascista passò dall’esaltazione del regime alla gioia irreale della liberazione, con i giornalisti al seguito delle truppe alleate e le sedi dell’Eiar che si liberavano da sole. Riascoltare i tanti materiali fortunatamente salvati del 1944 e del 45 è la storia in diretta di quella Italia che costruiva la sua democ razia pezzo per pezzo, zolla per zolla, casa per casa, senza bisogni di direttori, di capi, di disciplina, un’Italia che andava al microfono e parlava e urlava la sua felicità per essere entrati in quel mondo nuovo tanto agognato, la democrazia, una repubblica parlamentare basata su una costituzione che il governo attuale vuole colpire ma gran parte del mondo ci invidia.
Il 3 gennaio del 1954 qualche osservatore era convinto che oltre ad essere la data di avvio ufficiale della televisione della Rai sarebbe poi diventata anche quella della fine della radio. Mai errore fu più clamoroso. L’unico vero cambiamento fu il passaggio in televisione del festival di Sanremo, che non coincise affatto con perdite di ascolto della radio. Intanto dal 1946 era nata la Rai, Radio audizioni Italia, acronimo al quale fu poi aggiunto TV.
Anni epici per la radio, autentico servizio pubblico, come dimostrò la catena di solidarietà durante la tragica alluvione del Polesine del 1951, salvando vite umane ed aiutando gli sfollati a sopravvivere. E verso la fine degli anni cinquanta una novità tecnologica cambia il modo di ascoltare la radio. Vengono lanciate sul mercato i piccoli apparecchi a transistor, quelle radioline non più di grandi dimensioni, spesso eleganti e di legno costoso, ma piccole e con una antennina estraibile.
La radio è popolarissima anche se la televisione a canale unico o con il nuovo secondo canale per qualche ora del giorno monopolizza oltre 2° milioni di spettatori. E sono anni in cui la politica, che la presa sulla Rai l’ha esercita dal primo momento, tralascia la radio per concentrarsi sulla Tv. Anni che, metabolizzando in ritardo il ’68, come è avvenuto in Italia, aprono la strada alla fine quasi naturale del monopolio radiofonico.
Arrivano gli anni ’70 e le radio private, felicemente chiamate allora radio libere, in qualche modo copiando lo stile alternativo che alcuni programmi Rai avevano inventato – pensiamo a “Bandiera gialla” e soprattutto a “Alto gradimento”, ma anche a “Supersonic” e alle “Interviste impossibili” – irrompono come un terremoto e annullano un monopolio che sembrava inamovibile.
Fare radio era facile, la tecnologia permetteva già anche di trasmettere limitatamente dalla propria cucina di casa, ma soprattutto alla politica sembrò all’inizio un fenomeno minore, anche se contribuì e non poco a realizzare quella riforma della Rai, nel 1975, che avrebbe portato il servizio pubblico a rispondere non solo al governo ma a tutto il parlamento. Era una riforma vera, come tutte quelle degli anni ’70 (lavoro, sanità, parità uomo-donna, magistratura, psichiatria), gli anni che ancora in buona e in mala fede molti continuano a chiamare solo “di piombo” e che forse lo furono proprio perché l’Italia stava cambiando e stavano cadendo le barriere, anche in politica.
Di quel periodo è molto più marcato il ricordo della concorrenza televisiva per l’’avvento di Fininvest che poi diverrà il duopolio fra servizio pubblico e Silvio Berlusconi, prossimo presidente del consiglio per ben tre volte. Ma per la radio un duopolio non ci fu mai.
La radio passò dal monopolio al mercato e la logica conseguenza fu l’avvento dei network, con i primi anni novanta, che riunirono emittenti sparse posizionandosi spesso ad un buon livello di qualità, in particolare per la musica e l’intrattenimento. Era ormai uno strumento necessario, dal momento che network come Radio Deejay, Radio Capital, Rete 105, Radio Dimensione Suono ed altri stavano diventando concorrenti agguerriti. Per la radio Rai sembrava fosse l’inizio di un declino annunciato ma ci fu ancora una volta una resurrezione.
Nel 1995, quando in poche case gli italiani si connettevano alla rete non ancora denominata World Wide Web con i modem a velocità 14.4 –la stagione dei pionieri – la Rai ebbe una buona intuizione e costituì il comitato internet, un gruppo di lavoro che si basava sulla competenza o perfino la curiosità di alcuni dirigenti o giornalisti che avevano dato segno di interesse per questo mondo nuovo un po’ misterioso.
Alla radio in molti ci credettero subito e queste strutture, insieme all’ufficio stampa, furono le prime ad aprire un sito e poi un portale, sfidando anche il disinteresse e lo scetticismo della maggior parte dei colleghi. I radiofonici, strutturalmente meno legati al problema degli ascolti, meno coinvolti dai giochi della politica, aprirono un canale poi diventato un autentico successo.
Il Giornale Radio RAI è su Internet dal 19 febbraio 1996, prima testata giornalistica in rete con il server aziendale. Obiettivo primario fin dalle origini: fornire un prodotto giornalistico nuovo, utilizzando Internet come fonte di informazione e come strumento di ricerca e di approfondimento delle notizie trasmesse attraverso la radio.
E inizia la fortunata stagione del podcast, tuttora di grande successo, perché consente all’utente di risentire quello che gli è sfuggito, o di rinviare di qualche ora un ascolto saltato per problemi contingente, oltre che di farsi la sua libreria di ciò che gli interessa. Tutte le radio italiane hanno fatto il passaggio dall’analogico al digitale con buoni risultati, tanto che l’istat nel 2024 ha certificato che complessivamente in Italia il 56,2 % ascolta la radio e il 48% lo fa tutti i giorni anche se la fruizione è del tutto diversa. Internet ha cambiato l’ascolto dal modello unidirezionale al modello punto-punto e al modello fruizione in tempo reale ha aggiunto il modello ascolto quando voglio.
La radio on line è la dimostrazione forse definitiva che il successo duraturo di un mezzo di comunicazione è basato sulla sua capacità di evolversi e di adattare la tecnologia al suo schema e ai suoi contenuti. La radiofonia della Rai ha perso oggi un gioiello inquinando la terza rete, che ha fatto la storia dello sviluppo culturale del nostro paese. I giornali radio sono segnati dal controllo di un governo intollerante del dissenso, ma nella molteplicità delle edizioni, delle voci, dei notiziari veloci il pluralismo delle voci non si è del tutto perduto. Sarebbe bello e giusto, per la Rai e per tutti, celebrare la radio nel nome e nel segno della libertà.
* Presidente onoraria Articolo 21
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