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Cambia il panorama criminale giapponese

Piero Innocenti il . Criminalità, Droga, Economia, Internazionale, Istituzioni, Politica

Negli ultimi quattro anni in Giappone la polizia è stata particolarmente impegnata contro aggregazioni delinquenziali “fluide”,  composte in prevalenza da giovani ed esperti in informatica per le quali è stato coniato il termine Tokuryu dalle parole tokumei (anonimo) e ryudo (fluido).

Non più, quindi, strutture organizzate come la Yakuza storica mafia nipponica, ma persone comuni che decidono, magari per un tempo limitato, di delinquere e che operano nell’ombra per poi sparire nel nulla e riorganizzarsi. I reati commessi vanno dalle frodi, al traffico di stupefacenti, alle rapine, alla falsificazione di passaporti, al favoreggiamento del lavoro illegale, alla gestione  di banche clandestine.

Un bel grattacapo, dunque, per i poliziotti giapponesi che hanno istituito alcune unità specializzate in sette città dove tali crimini vengono più comunemente commessi. La Yakuza rimane, comunque, nonostante alcuni ripetuti colpi inflitti dalla polizia, la più temibile e radicata organizzazione criminale con radici profonde nella società e nella cultura giapponese.

Se nobili possono essere state le sue origini (e il codice degli Yakuza si ispira ai valori della giustizia, della fraternità, dell’amore, del dovere), da tempo è andato perduto completamente il fine della solidarietà sociale e rimane il carattere violento e la rigida struttura verticistica, al servizio dell’efficienza criminale.

Le origini storiche dei gruppi Yakuza risalgono al Medioevo. La parola deriva dalla sequenza di tre numeri (8-9 e 3 che si pronunciano, appunto, Ya-Ku-Za) che costituivano il punteggio più basso, perdente, in un gioco di carte chiamato Hahafuda. La combinazione sta ad indicare i perdenti, dunque, gente senza valore, che non conta nulla. Gruppi di emarginati, dunque, e sembra che anche oggi i componenti delle gang criminali (almeno nei livelli più bassi) siano reclutati spesso tra i ceti che subiscono forme di discriminazione, come le minoranze coreane o i burakumin, i lavoratori della macellazione o della concia di pelli, considerati “impuri” per motivi religiosi o culturali.

Un’altra tradizione attribuisce alla Yakuza origini più nobili: alla caduta del sistema feudale giapponese, nella seconda metà dell’Ottocento, alcuni samurai sarebbero divenuti banditi, per rubare ai ricchi e donare ai poveri, come Robin Hood.

In tempi più recenti si è pensato persino che le organizzazioni Yakuza assolvessero a una funzione sociale positiva, quella di organizzare la criminalità in bande disciplinate, in modo da evitare o ridurre al minimo la fastidiosa criminalità di strada. Gli Yaluza operano soprattutto nel campo del traffico di amfetamine (in Giappone sono chiamate “droghe del risveglio”) e di altre droghe, nello sfruttamento della prostituzione, nel commercio di materiale pornografico, nel gioco d’azzardo e nel racket dei trasporti, dell’usura, dell’estorsione, nel traffico di immigrati; controllano settori dell’edilizia, della speculazione immobiliare e finanziaria, dello sport, del divertimento; sono in grado di condizionare molte aziende sia con l’estorsione che con la gestione di scioperi e proteste (si parla di un volume di affari di una ventina di miliardi dollari).

Fino al 1991, momento in cui una legge anticrimine ha contribuito a fugare l’equivoco che le organizzazioni Yazuza somigliavano ad associazioni con scopo solidaristico, l’appartenenza non era affatto clandestina ed era un segno di orgoglio personale appuntare il loro distintivo sulla giacca.

Questa tolleranza ha consentito la diffusione della Yakuza a livello internazionale sbarcando, dopo la seconda guerra mondiale, alle Hawaii e nei paesi della costa orientale statunitense e, dopo, nel sud est asiatico, nelle Filippine e in Australia. In Italia non ci sono state, sino ad oggi, evidenze investigative sulla presenza di esponenti della criminalità giapponese.

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