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Terranova, il papà dell’antimafia

Piergiorgio Morosini * il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica, Sicilia

Uomini d’altri tempi – Il giudice istruttore, eletto in Parlamento, contribuì in modo sostanziale alla creazione della Dia e della formulazione del 41-bis. Tornato magistrato fu ucciso dalle cosche.

26 settembre 1979. L’aula di Montecitorio è ancora scossa dall’attentato del giorno precedente a Palermo, in cui hanno perso la vita il giudice Cesare Terranova e il poliziotto Lenin Mancuso. Chiede la parola il deputato Pio La Torre. Il suo è un intervento asciutto, senza accenni retorici. Parla di un “debito d’onore verso un compagno vilmente assassinato”, con cui aveva condiviso il lavoro in Commissione antimafia. E ricorda la promessa fatta a colui che gli aveva consegnato gli “appunti” per la prima riforma organica di contrasti ai clan.

In quel modo La Torre annuncia il disegno di legge che rivoluziona la lotta alla mafia e che verrà approvato nel 1982, solo dopo la sua uccisione. Quindi, se ancora oggi la Rognoni-La Torre è efficace in chiave preventiva e repressiva, lo si deve anche a Terranova, che mise la pregressa esperienza giudiziaria al servizio dell’attività parlamentare.

Eppure, nel fitto calendario delle commemorazioni delle vittime di mafia, anche la stampa, troppe volte, ha trascurato il ricordo di quel 25 settembre. Ma, in un tempo, il nostro, in cui arroganza, indifferenza e approssimazione, nella società come nelle istituzioni, troppo spesso sembrano prevalere su competenza, idee e passione civile, la storia di Cesare Terranova meriterebbe di essere raccontata, soprattutto ai più giovani. Anche per capire meglio tutto quello che è accaduto dopo.

Negli anni Sessanta, quando ancora tante sentenze negavano persino l’esistenza della mafia come associazione criminale, Terranova ricoprì il ruolo di giudice istruttore a Palermo. Nonostante i limiti non solo culturali dell’ambiente che lo circondava, fu il primo a cogliere la pericolosità dei “corleonesi” ed ebbe il coraggio di rinviare a giudizio Riina, Provenzano e i loro accoliti.

In quei processi, Terranova decodifica l’agire dei clan. Spiega, nei suoi atti, come la mafia non sia una mera questione di ordine pubblico, ma un fenomeno complesso che si radica e si espande anche nell’Italia settentrionale, grazie ai sistematici collegamenti con politica e mondo degli affari. E, nella volontà dei boss di sfruttare a proprio vantaggio le trasformazioni della società, avverte una straordinaria insidia per la nostra democrazia che lo porta a denunziare i limiti di un apparato normativo e istituzionale pensato per una realtà economica e ambientale di stampo liberale ottocentesco.

Fu l’inadeguatezza degli strumenti antimafia di allora il motivo per cui, nel 1972, con una scelta tormentata, decise di accettare la candidatura alla Camera, da indipendente nelle liste del P.C.I. Una volta eletto, si spese con determinazione e lungimiranza per una legislazione ad hoc, da affidare a organismi “dedicati”.

Propose l’introduzione del reato di associazione mafiosa (art. 416 bis) e nuovi strumenti in grado di aggredire i patrimoni illeciti, senza trascurare le garanzie processuali. Lanciò l’idea della creazione di organismi centrali in cui si coordinano le diverse forze di polizia, anticipando di anni l’istituzione di strutture come la D.I.A., poi fortemente voluta da Falcone.

E, in una stagione in cui la fiducia nelle istituzioni repubblicane veniva messa a dura prova da trame eversive e atti di terrorismo, contribuì, in Commissione antimafia, a ricostruire le vicende in cui si era manifestata la “violenza politica” dei mafiosi al servizio di altre entità, a partire da Portella della Ginestra.

Al termine della pluriennale esperienza a Montecitorio, Terranova volle tornare a vestire la toga nel Tribunale di Palermo, rifiutando altri prestigiosi incarichi politici. Tutto questo, oggi, sarebbe molto complicato, se non impensabile.

L’orizzonte in cui collocare la questione della partecipazione alla politica del magistrato è sensibilmente mutato rispetto agli anni Settanta. E la diffusa idiosincrasia per le “porte girevoli” si spiega anche con il nuovo impatto della giurisdizione su istituzioni, economia e società. Tant’è che, per assicurare ai cittadini giudici al di sopra di ogni sospetto di parzialità, la legge Cartabia (17 giugno 2022 n. 71) ha introdotto norme che rendono la partecipazione del magistrato alla politica attiva sempre più difficile e, nella sostanza, tendenzialmente irreversibile.

In realtà Terranova, in Parlamento, voleva continuare il suo lavoro “da un altro punto di vista”, come confidò alla moglie prima di diventare deputato. Così, mise il suo equilibrio e il suo sapere al servizio della vita democratica, in nome di un disegno costituzionale non di rado ignorato dal Parlamento e dal governo.

E quando decise di tornare nelle aule di giustizia, disse di farlo per “proseguire, arricchito dalle interessanti esperienze acquisite, nell’impegno civile e morale che è stato, in ogni momento, il mio riferimento fermo e costante”.

Forse proprio quella determinazione, la passione civile e le tante cose che aveva appreso durante il mandato parlamentare, gli furono fatali.

* Presidente del Tribunale di Palermo

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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