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Otranto: avamposto della solidarietà

Di Chiara Spagnolo il . Puglia

Gli sbarchi di profughi riprendono a ritmo serrato e il Salento si prepara a vivere la sua seconda stagione dell’accoglienza. Otranto, l’oriente più autentico d’Italia, torna ad essere avamposto di solidarietà. Terra che apre le braccia ai “fratelli sfortunati”, rispolverando un’antica vocazione all’aiuto e senza timore di scheggiare la sua patina dorata di perla del turismo salentino. La solidarietà, qui nel Tacco d’Italia, non è parola ma fatto. Gesti concreti di cittadini, volontari, amministratori comunali, uniti nello sforzo di far funzionare – con pochi mezzi e molte difficoltà – il centro di primissima accoglienza “Don Tonino Bello”.

La struttura, immersa in una pineta non lontano dal mare, era stata aperta negli anni ’90, quando di sbarco in Salento ce n’era uno al giorno, al punto che da Otranto transitarono circa 50.000 extracomunitari. Chiusa nel 2005, quando sembrava che i viaggi della speranza fossero ormai solo un ricordo, l’enorme edificio è stato ristrutturato nei mesi scorsi e messo a disposizione dal Comune nel momento in cui il fenomeno degli sbarchi ha ricominciato ad avere i connotati dell’emergenza.
Oggi è un esperimento.

Non un Cda (Centro d’accoglienza), non un Cara (Centro richiedenti asilo) e neppure un Cie (Centro di identificazione ed espulsione), bensì un ibrido a cui è stata data legittimità istituzionale con il protocollo firmato il 4 agosto scorso dalla Prefettura e dalla Provincia di Lecce insieme all’amministrazione di Otranto e a varie associazioni di volontariato. Proprio loro, Comune e volontari, sono la spina dorsale di questo Centro di “primissima accoglienza”, in cui gli stranieri che sbarcano in Salento vengono ospitati per poche ore, giusto il tempo di essere identificati, rifocillati, eventualmente curati se ne hanno bisogno.

Nella struttura tutto parla di loro, di uomini e donne, molti adolescenti, che arrivano in Italia senza sogni né lacrime. Ma anche delle persone che ogni giorno rendono possibile l’attività del Centro. A partire da Raffaele De Cicco, il vulcanico impiegato messo a disposizione dal Comune, che si è trasformato in un factotum nel tentativo di mantenere in vita la struttura con i pochissimi soldi previsti dal Bilancio comunale. Il protocollo che ne ha sancito la nascita prevede infatti che a carico dell’amministrazione siano le spese di ristrutturazione, messa in sicurezza, pulizia dello stabile e gestione, mentre il ministero dell’Interno dovrebbe rimborsare quelle relative ai pasti e al vestiario.

Il bilancio dell’ente, però, è risicato mentre i rimborsi del Governo tardano ad arrivare, per cui per far funzionare il Centro è stata inventata una formula di accoglienza “domestica” che finora si è rivelata efficace. Molta parte del lavoro, quando avvengono gli sbarchi, viene svolta dai volontari, che si occupano anche di reperire cibo non deperibile, abiti, scarpe, mentre De Cicco usa l’ingegno per ovviare ai problemi di gestione e manutenzione della struttura. Tante cose necessarie, come un piccolo condizionatore e un fornello, le ha portate da casa sua, altre le ha scovate rovistando nelle discariche, come una stufa gettata via da una scuola, o una vecchia stampante da cui è stato recuperato un motorino.

La gente di Otranto sa che nel centro tutto può servire e, quando può, dona qualcosa. Così le sedie della stanza principale in cui vengono accolti i profughi sono tutte diverse: ci sono quelle di plastica di un bar, alcune di una cucina di una famiglia del posto, addirittura una fila di poltrone donate da un cinema. Sono i pezzi del Salento che si mobilita per aiutare i fratelli in fuga da Paesi in guerra. Senza risparmiare energie e risorse economiche. Senza neppure prendere in considerazione l’eventualità di sbattere la porta in faccia a chi arriva.

«Otranto ha già vissuto una stagione di sbarchi – spiega il sindaco Luciano Cariddi -. Negli anni ’90 quasi ogni famiglia ospitò i profughi albanesi, all’inizio la città ebbe paura ma poi capì che la sicurezza dei cittadini non era in pericolo. L’integrazione qui – aggiunge – è stata un fenomeno pacifico, per questo ora siamo pronti ad aprire nuovamente le braccia ai fratelli meno fortunati di noi». Così il “Don Tonino Bello” spalanca le sue stanze a chi arriva. Di giorno o di notte, siano in dieci o in cinquanta gli stranieri che bussano alla sua porta. Accoglie, sfama, lava, fa riposare membra stremate da viaggi dannati.

Nella pineta non lontano dal mare, aspetta chi il mare lo attraversa per sfuggire all’orrore della guerra. Aspetta e accoglie. Con pochi mezzi e senza paura. Ma con la coscienza che se gli sbarchi, come previsto dalle forze dell’ordine dovessero continuare ed aumentare, questo Centro di Otranto, da solo, non basterebbe più.

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