Gela, la guerra di mafia di nuovo in aula
La scorsa settimana i magistrati della Dda di Caltanissetta sono stati impegnati nella ricostruzione delle fasi essenziali del sanguinoso conflitto di mafia che infiammò le strade di Gela tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, lasciando a terra più di cento morti. Diversi collaboratori di giustizia, in passato attivi killer del gruppo gelese di cosa nostra, sono stati ascoltati all’interno dell’aula bunker di Roma nell’ambito del processo “Genesis”. Al centro del dibattimento, tre omicidi: le vittime, in totale quattro, erano tutte affiliate al gruppo della “stidda”.
A rispondere di quei fatti sono Emanuele Argenti, Emanuele Emmanuello e Salvatore Morello. A testimoniare di fronte alla corte in trasferta e al pubblico ministero della Dda nissena Onelio Dodero, sono stati gli ex vertici del gruppo di cosa nostra, da Rosario Trubia ai fratelli Luigi, Angelo, Sergio ed Emanuele Celona passando per Filippo Bilardi. All’interno del processo “Genesis”, infatti, sono confluite tre inchieste legate alle uccisioni degli stiddari Orazio Coccomini e Salvatore Lauretta, omicidio che aprì la via al conflitto armato tra i due gruppi, e dei compagni di cosca Francesco Cavallo e Giacomo Di Stefano, tutte avvenute tra il 1987 ed il 1988.
Stando alle ricostruzioni fornite dai testimoni, la morte dei quattro uomini sarebbe da ricollegare al tentativo, avviato in quel periodo da cosa nostra gelese, di prendersi l’intero territorio della città, eliminando ogni tipo di ostacolo, e da rivalità personali mai sopite. Ad ammetterlo, anche Rosario Trubia, uno degli ex reggenti della locale cosa nostra, che si è autoaccusato del duplice omicidio Lauretta-Coccomini, posto in essere insieme ad Alessandro Emmanuello.
Nel corso degli interrogatori, non sono mancati diversi riferimenti alla fine di Giacomo Di Stefano, i cui resti non sono mai stati ritrovati. Emanuele Celona, uno dei collaboratori sentiti nell’aula bunker di Rebibbia, ha ammesso che l’uomo, dopo essere stato catturato da un commando del gruppo di cosa nostra, venne torturato con un cacciavite e finito a colpi di pistola: il suo corpo, inoltre, sarebbe stato gettato all’interno di un pozzo.
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