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CSM, il caso della consigliera Rosanna Natoli. È venuto il momento del diritto?

Nello Rossi * il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Istituzioni

Se nella vicenda della consigliera Rosanna Natoli l’etica, almeno sino ad ora, si è rivelata imbelle e se gran parte della stampa e della politica hanno scelto il disinteresse e l’indifferenza preferendo voltarsi dall’altra parte di fronte allo scandalo cha ha coinvolto un membro laico del Consiglio, è al diritto che occorre guardare per dare una dignitosa soluzione istituzionale al caso, clamoroso e senza precedenti, dell’inquinamento della giustizia disciplinare. 

Uno scandalo senza precedenti nel cuore del CSM

Il 16 luglio 2024 giunge a conclusione, dinanzi alla Sezione disciplinare del CSM, il procedimento n. 94 del 2016, nei confronti della giudice catanese Maria Fascetto Sivillo, rimasto a lungo sospeso per pregiudizialità penale ossia per la pendenza di un processo penale riguardante gli stessi fatti oggetto della incolpazione disciplinare, qualificati in sede penale come reato ex art. 336 c.p..

Il giudizio disciplinare è solo uno dei diversi procedimenti che vedono la magistrata, sempre difesa dall’avvocato Taormina, in veste di incolpata.

Sebbene nel processo penale che ha determinato la lunga sospensione del giudizio disciplinare la dottoressa Maria Fascetto Sivillo sia stata assolta, nell’udienza del 16 luglio il giudice disciplinare non può né deve limitarsi ad una mera presa d’atto della decisione penale.

Al contrario la Sezione è chiamata a valutare se i fatti contestati alla magistrata abbiano o meno un autonomo rilievo disciplinare e a decidere di conseguenza.

Al termine della discussione viene pronunciata una sentenza di assoluzione della Fascetto dall’addebito «perché il fatto è di scarsa rilevanza».

Nel collegio che adotta tale decisione liberatoria siede – ed è un particolare importante alla luce del retroscena che verrà alla luce di lì a poco – anche la consigliera Rosanna Natoli, vicepresidente della Sezione disciplinare del CSM.

Al procedimento pubblico, trasmesso su Radio Radicale e conclusosi con l’assoluzione, fa immediatamente seguito una distinta procedura in camera di consiglio, non pubblica, nella quale si dovrebbe discutere la misura della sospensione dalle funzioni applicata nei confronti della dottoressa Fascetto Sivillo nell’ambito di un altro dei procedimenti disciplinari a suo carico.

La parola ai cronisti

Da questo momento in poi, poiché la procedura in camera di consiglio non è pubblica, è opportuno lasciare la parola ai cronisti, liberi di riportare anche fatti conosciuti (non attraverso canali ufficiali ma) sulla base di indiscrezioni e di informazioni provenienti dalle loro fonti.

Il merito dello scoop – come tutti gli scoop gratificante ed effimero – è del quotidiano on line La Repubblica che, alle 14.09 del 18 luglio, pubblica un articolo a doppia firma di Giuliano Foschini e Liana Milella dal sommario eloquente: «Esclusivo di Repubblica. Il colloquio nel suo studio da avvocato a Paternò con la giudice civile Fascetto, sotto inchiesta disciplinare. La pennetta e la trascrizione sono già a piazzale Clodio. Natoli dopo le rivelazioni si dimette dalla commissione disciplinare di Palazzo Bachelet».

Ecco alcuni stralci dell’articolo, utili a descrivere quanto accaduto nel procedimento in camera di consiglio: «Il Csm, due giorni fa, ha inviato una “bomba” politica alla procura di Roma. Un plico che contiene una pennetta con una lunga registrazione. Ben 130 pagine. Partita dalla stanza del vicepresidente leghista Fabio Pinelli, “costretto” a silurare proprio una consigliera laica del “suo” stesso centrodestra, l’avvocata di Paternò Rosanna Natoli […]».

La consigliera «componente della commissione disciplinare del Consiglio, ha avuto un lungo colloquio, nel suo studio da avvocato a Paternò, con una giudice civile di Catania – al secolo Maria Fascetto Sivillo – a sua volta sotto inchiesta disciplinare proprio a palazzo Bachelet. Fascetto le chiedeva aiuto. Ma ha anche registrato la loro conversazione. E ha consegnato la pennetta al suo avvocato, il noto Carlo Taormina, ex deputato di Forza Italia ed ex sottosegretario all’Interno. Martedì la bomba è esplosa al Csm, proprio durante la seduta della commissione disciplinare che vedeva di fronte da una parte Natoli, nella veste di giudice, e la Fascetto, in quella di imputata.

Una deflagrazione potente nella grande sala del plenum. Raccontiamola. È in corso la seduta disciplinare. Presente appunto Rosanna Natoli nel collegio in quanto giudice. Presente Fascetto, magistrata assai nota proprio in quella commissione per altre vicende che l’hanno vista coinvolta per litigi in tribunale e comportamenti anomali […]. Ed ecco alzarsi il suo avvocato Taormina che deposita la pennetta, nonché la trascrizione del contenuto, della conversazione intercorsa tra la sua cliente, la giudice Fascetto, e la giudice disciplinare Natoli.

Sorpresa e panico. Rosanna Natoli si alza e annuncia le sue dimissioni da componente della disciplinare. La disciplinare stessa si blocca. Il comitato di presidenza, di cui fanno parte con il vicepresidente Pinelli, la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano e il procuratore generale Luigi Salvato, decidono che c’è solo una cosa da fare immediatamente. Inviare alla procura di Roma la pennetta e il suo contenuto. Troppo grave – e a memoria del Csm senza precedenti – che un giudice disciplinare che sta trattando una causa s’incontri separatamente con un’imputata e le dia dei consigli, di qualsiasi tipo essi siano, entrando comunque nel merito del caso. Proprio per questo – il rischio che siano stati rivelati nel colloquio segreti interni alla commissione disciplinare – pennetta e trascrizione sono stati spediti subito a piazzale Clodio. Lo scandalo è grande al Csm».

A stretto giro di posta anche Giulia Merlo, su Il Domani del 18 luglio, interviene sulla vicenda riferendo che Rosanna Natoli, consigliera laica del centrodestra «si è dimessa dalla commissione disciplinare dopo che è scoppiato il caso delle registrazioni di un colloquio con una magistrata sottoposta a procedimento disciplinare».

«I fatti» – prosegue la giornalista «risalgono a martedì: durante un’udienza disciplinare a carico della giudice civile di Catania Maria Fascetto, il suo difensore Carlo Taormina […] ha depositato una chiavetta usb contenente la registrazione di un colloquio tra la stessa Natoli e la magistrata incolpata, sotto procedimento per “uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o altri”. Il documento audio con la relativa trascrizione di 130 pagine è stato registrato dalla giudice civile, che ha incontrato Natoli presso il suo studio legale a Paternò. A quel punto, la sezione disciplinare non ha potuto fare altro che sospendere l’udienza e il procedimento e Natoli, poco dopo, si è dimessa. Nella registrazione, infatti, la consigliera ammetterebbe di stare violando il segreto della camera di Consiglio. Subito dopo, poi, il comitato di presidenza del Csm – guidato dal vicepresidente di area centrodestra Fabio Pinelli – ha inviato gli atti alla procura di Roma, per la verifica dell’eventuale presenza di reati».

Il contenuto del colloquio incriminato

A questi resoconti va aggiunto che l’incontro incriminato tra la giudice e l’incolpata risulta avvenuto il 3 novembre 2023 e che, nei giorni successivi all’emersione del caso, la stampa ha reso noti la registrazione audio e i contenuti integrali del colloquio.

Colloquio nel quale la consigliera Natoli informa la Fascetto delle modalità di svolgimento di una camera di consiglio della Sezione riguardante un precedente giudizio disciplinare a suo carico; manifesta con chiarezza il suo atteggiamento di pregiudiziale favore nei confronti dell’incolpata in quanto “amica degli amici” ed oggetto da più parti di benevole segnalazioni; pretende infine di impartirle consigli sulla condotta da tenere nei procedimenti ancora in corso a suo carico.

L’iniziativa della Procura di Roma

L’ultimo anello di questa catena di fatti è la notizia, emersa il 30 luglio 2024, che la procura di Roma ha iniziato un procedimento penale nei confronti della consigliera Natoli per due ipotesi di reato – abuso di ufficio e rivelazione di segreto di ufficio – fissando la data per un interrogatorio cui l’indagata non si presenterà.

A radicare la competenza a Roma è il reato di abuso d’ufficio, di cui il parlamento ha deciso l’abrogazione con il voto della Camera del 4 luglio 2024 sull’art. 1 del ddl Nordio ma che è ancora in vita in attesa della firma della legge da parte del Presidente della Repubblica e della successiva pubblicazione del testo di legge sulla Gazzetta Ufficiale.

La competenza territoriale romana sembra però destinata ad essere effimera.

Essendo fondata sul luogo di commissione dell’ipotizzato abuso di ufficio, la competenza appare destinata a venir meno quando i pubblici ministeri romani dovranno prendere atto dell’abrogazione del reato mentre il procedimento penale proseguirà per la rivelazione di segreto d’ufficio, che, stando a quanto riportato dalla stampa, sarebbe avvenuta in Sicilia, nello studio dell’avvocata Natoli[1].

La questione delle dimissioni

A fronte di queste notizie, le dimissioni della consigliera Natoli (non solo da componente della Sezione disciplinare ma anche) da membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura appaiono subito, agli occhi degli osservatori obiettivi, assolutamente doverose.

Del tutto inedita e inconcepibile appare infatti una conversazione tra la giudice e l’incolpata che somma in sé illecite rivelazioni sullo svolgimento di una camera di consiglio della Sezione disciplinare, assicurazioni su benevoli atteggiamenti riguardanti futuri giudizi e precetti sulla condotta processuale da osservare per ottenere esiti favorevoli nei procedimenti disciplinari a venire.

Ed egualmente gravissima, anche se poco sottolineata nel dibattito pubblico sviluppatosi sul “caso”, la partecipazione della consigliera Natoli alla decisione del 16 luglio 2024 del procedimento n. 94 del 2016, dopo che, nell’incontro del 3 novembre 2023, ella aveva manifestato alla dottoressa Fascetto Sivillo vicinanza, solidarietà, volontà di sostegno in virtù di condivisi rapporti amicali.

E’ un fatto però che le dimissioni della consigliera Natoli sinora non ci sono state e che, complice il “generale Agosto” (copyright Bettino Craxi), ella ha continuato ad occupare il suo seggio a palazzo Bachelet.

Il caso Natoli è così divenuto un groviglio arduo da dipanare nel quale si intrecciano e si sovrappongono un problema etico, un problema politico ed un problema giuridico.

L’etica si è rivelata imbelle

Alla magistratura italiana è stato più volte rimproverato – in particolare da chi scrive [2] – di non aver fatto tutto quello che poteva per valorizzare il contenuto del suo codice etico facendolo vivere come un vero e proprio “patto” con i cittadini nel quale – a fronte del riconoscimento da parte della collettività dell’indipendenza e della ineliminabile discrezionalità interpretativa del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni – i magistrati si impegnano ad osservare le regole di correttezza istituzionale ma anche di cortesia, di umanità, di rispetto, di efficienza nell’adempimento dei propri compiti che stanno scritte nel codice.

Ma se è stato complessivamente modesto il risalto dato al codice etico dei magistrati, ancora più fitta è stata l’ombra nella quale sono rimaste immerse le regole riguardanti “i doveri” ed “i comportamenti” dei componenti del CSM, che pure erano stati oggetto di una importante delibera consiliare risalente al 20 gennaio 2010.

In tale atto ci si preoccupava, opportunamente, di chiarire le implicazioni pratiche del principio di “libera autodeterminazione di ciascun componente del Consiglio”, impegnando i consiglieri a studiare di persona le questioni da affrontare e a non rendersi acritici interpreti, in sede consiliare, «di posizioni di gruppi politici o di singoli esponenti politici nonché di gruppi dell’associazionismo giudiziario o di singoli magistrati anche solo per ragioni di appartenenza o di debito elettorale».

Con il corollario del rifiuto di far discendere da accordi assunti all’esterno dell’istituzione e da pratiche spartitorie le scelte consiliari, con particolare riferimento alle nomine ad uffici direttivi o semidirettivi ed al conferimento di altri incarichi.

Si poneva inoltre l’accento sull’indipendenza dei consiglieri di nomina parlamentare, ai quali si chiedeva di non mantenere in vita, anche di fatto, situazioni generatrici di incompatibilità e di attuare una effettiva sospensione delle attività professionali durante la consiliatura.

Il quadro dei doveri professionali e morali assunti con la carica era completato da richiami alla diligenza e laboriosità, al rispetto del riserbo e della segretezza sanciti dagli artt. 18 e 19 del Regolamento Interno del Consiglio, all’obbligo di astensione da dichiarazioni pubbliche interpretabili come indebite interferenze in procedimenti giudiziari in corso.

Chiunque abbia seguito nel corso degli anni le vicende consiliari sa che non sono mancate violazioni di queste “naturali” regole di condotta da parte dei consiglieri superiori.

Ed è un fatto che tali violazioni sono state solo di rado polemicamente stigmatizzate nei dibattiti in seno al Consiglio e che – al di fuori delle decisioni imposte dalla legge per i casi di violazione di norme di legge sulle incompatibilità o di conclamata violazione del segreto di ufficio- non si conoscono atti del Consiglio diretti a richiamare singoli consiglieri al rispetto delle regole proprie del ruolo svolto.

Sono mancate in altri termini proprio la vigilanza e la riprovazione dei propri pari, necessarie per conferire alle prescrizioni etiche una reale efficacia e capacità di penetrazione.

Se dunque l’esperienza complessiva della vita consiliare ci consegna un bilancio non sempre esaltante dell’etica dei membri del Consiglio, occorre riconoscere che il comportamento tenuto dalla consigliera Natoli nella vicenda, divenuta ormai di dominio pubblico, segna un impressionante salto di qualità.

Sembra infatti del tutto smarrita quella «consapevolezza dei doveri insiti nella funzione» che la delibera del 2010 riteneva «connaturata al livello etico dei componenti eletti» così da far ritenere impropria una minuta specificazione dei loro doveri.

Ed è frontale il contrasto tra la condotta dell’avvocata e le statuizioni contenute nel punto 5 della delibera, secondo cui «Ogni consigliere […] per l’obbligo di lealtà comportamentale richiesta dall’alta funzione istituzionale esercitata, è tenuto a rispettare i doveri di segreto e di riserbo, così come precisati negli articoli 18 e 19 del Regolamento Interno».

Il rispetto di tali doveri – proseguiva la delibera – «fermo restando il regime sanzionatorio previsto dall’ordinamento per le ipotesi di violazione del segreto di ufficio e della riservatezza da assicurare a protezione dei dati personali, richiede un qualificato sforzo di autoresponsabilità» giacché «gli artt. 18 e 19 del Regolamento Interno […] operano un contemperamento tra l’esigenza di garantire la sfera di riservatezza delle singole persone coinvolte nelle procedure consiliari e quella di assicurare l’esercizio di una funzione pubblica elettiva di rilievo costituzionale, specificando in termini elastici le modalità e tipologie di atti in ordine ai quali è indispensabile il segreto o, comunque, il riserbo».

Con la conseguenza che «ciascun consigliere […] deve essere estremamente attento nel valutare se le informazioni di cui disponga possano, o debbano, essere divulgate, o se, invece, sia necessario privilegiare le esigenze di riservatezza».

Se un oculato rispetto del segreto e il mantenimento del riserbo sono tratti destinati a caratterizzare il complessivo comportamento di tutti i consiglieri superiori, questi doveri assumono una intensità ancora maggiore quando le funzioni svolte siano quelle del giudice disciplinare, partecipe di una attività di natura giurisdizionale [3].

In tal caso i doveri del consigliere si sommano a quelli propri del giudice rendendo doveroso uno standard etico particolarmente elevato.

Il contrario di quanto sembra avvenuto nel caso Natoli nel quale appaiono contemporaneamente violati sia il minimo etico proprio della funzione di giudice disciplinare sia la normativa penale sul segreto della camera di consiglio, sia infine, i doveri connaturati alla funzione di membro del CSM.

Gran parte della stampa e della politica hanno scelto la minimizzazione o il disinteresse

Di fronte allo scandalo che ha investito un membro laico del Consiglio designato dalla destra la stampa e la politica dell’area di riferimento della consigliera hanno scelto la via del silenzio e della minimizzazione.

Hanno improvvisamente taciuto i sistematici fustigatori dell’organo di autogoverno, i politici linguacciuti da anni impegnati a narrare vere o presunte colpe della magistratura e dei suoi rappresentanti, i tanti professionisti dell’insulto e dell’intimidazione nei confronti dei giudici.

E chi ha parlato lo ha fatto per imbastire una imbarazzante difesa di ufficio, sostenendo l’insussistenza del reato di rivelazione del segreto d’ufficio perché il colloquio Natoli – Fascetto Sivillo ha riguardato un giudizio già concluso, di cui era ormai nota la decisione.

L’effetto di questa scelta è stato che, a dispetto della straordinaria gravità e pericolosità dei comportamenti emersi – l’inquinamento della più delicata funzione del Consiglio – ha prevalso la voglia di mettere la sordina allo scandalo e di far calare sull’intera vicenda una cortina di disinformazione e disinteresse.

E’ toccato alla Giunta dell’Associazione nazionale magistrati testimoniare l’indignazione e lo sconcerto per quanto accaduto in un comunicato del 24 luglio 2024 nel quale si sottolinea «la spiccata gravità» dei fatti e «l’assoluta inadeguatezza al ruolo istituzionale ricoperto» manifestata dalla consigliera Natoli.

Nel comunicato, inoltre, si denuncia come «inaccettabile» il tentativo di minimizzare le condotte della consigliera «poiché esse minano in profondità il prestigio dell’istituzione e offendono la magistratura nel suo complesso» e si auspica «che il senso di responsabilità dell’interessata, che finora non si è registrato, prevalga, affinché si giunga in tempi rapidi alla soluzione di una inevitabile crisi istituzionale dagli esiti imprevedibili».

Anche alcuni membri laici del precedente Consiglio sono intervenuti pubblicamente per ribadire alcune essenziali verità: che «il CSM non è posto per gli amici degli amici [4]» e che i fatti emersi «sono molto gravi, come ai tempi dell’Hotel Champagne: ma qui è colpita la funzione giurisdizionale [5]».

Nel complesso, però, nella vicenda Natoli la stampa e la politica della destra hanno sin qui dato una prova della loro enorme capacità di occultare o di relegare in secondo piano fatti sgraditi e imbarazzanti, senza minimamente preoccuparsi delle soluzioni istituzionali necessarie per ridurre i loro effetti dannosi e ripristinare la credibilità istituzionale compromessa del Consiglio Superiore.

È venuto il momento del diritto? 

Se fin qui l’etica è rimasta negletta e se gran parte della stampa e della politica hanno scelto di voltare la faccia dall’altra parte, optando spregiudicatamente per due pesi e due misure, dove ricercare una risposta al caso Natoli che salvaguardi la dignità e la funzionalità dell’istituzione?

L’unica possibile soluzione è offerta dall’art. 37 della legge 24 marzo 1958 n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura) che regola le diverse ipotesi di sospensione e decadenza dei membri (laici e togati) del CSM [6], prevedendo in particolare che i consiglieri possano essere sospesi quando siano «sottoposti a procedimento penale per delitto non colposo».

Per l’adozione della sospensione “facoltativa” la votazione avviene a scrutinio segreto ed è richiesta la maggioranza dei due terzi dei componenti.

La lettura della norma rende evidente che per la sospensione facoltativa la garanzia “forte” del componente del Consiglio è di natura procedurale e risiede nella elevata maggioranza richiesta per l’approvazione della proposta di sospensione (due terzi dei componenti del CSM, laddove le delibere del Consiglio sono normalmente approvate con la maggioranza dei votanti) e nella previsione dello scrutinio segreto.

E’ invece formulato in termini ampi e generali il presupposto oggettivo della possibile sospensione, che consiste, senza ulteriori specificazioni, nella sottoposizione del consigliere «ad un procedimento per un delitto non colposo».

L’istituto della sospensione facoltativa è dunque connotato dalla peculiare combinazione di un’ampia area di applicabilità e di requisiti procedurali particolarmente stringenti.

Ed è appunto questa equilibrata “combinazione” che, da un lato, consente al Consiglio un’efficace azione di autotutela della propria immagine rispondente alle variabili esigenze dei casi concreti e, dall’altro, offre al singolo consigliere una adeguata garanzia del proseguimento della sua attività consiliare a fronte di manovre minoritarie e prive di un ampio sostegno.

Il Consiglio è dunque messo in grado di decidere la sospensione con sue valutazioni discrezionali – libere, responsabili, largamente condivise – nei casi in cui la permanenza in attività del consigliere sottoposto a procedimento penale sia ritenuta fonte di disfunzioni e di discredito mentre il componente dell’organo di governo autonomo può contare sul fatto che la sospensione potrà scaturire solo dal voto segreto di un elevato numero di consiglieri.

La disciplina della sospensione facoltativa e la riforma Cartabia. Ovvero: la legge speciale deroga la legge generale

È importante mettere in luce che la disposizione concernente la sospensione facoltativa dei consiglieri è – al pari dell’intera disciplina della sospensione e decadenza contenuta nella legge 195 del 1958 – norma speciale, pensata e costruita “su misura” per rispondere alle peculiarità di un organismo che riunisce in sé componenti di diversa estrazione e che perciò in alcuni casi deve accomunare ed in altri differenziare i loro regimi di sospensione e decadenza in un mix particolare e irripetibile.

A questa prima considerazione va aggiunto che le norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura dettate dalla legge n. 195 del 1958 disciplinano una materia che l’art. 108 della Costituzione “riserva” alle leggi sull’ordinamento giudiziario.

Queste notazioni inducono ad escludere che la norma sulla sospensione facoltativa dei consiglieri laici e togati sia stata incisa o addirittura implicitamente abrogata dall’art. 335 bis c.p.p., introdotto dalla riforma Cartabia [7], secondo cui «La mera iscrizione nel registro di cui all’art. 335 non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attributo».

Quest’ultima disposizione, infatti, detta una “norma generale” che mira a tutelare una indistinta pluralità di cittadini dalle possibili conseguenze pregiudizievoli di un passaggio procedurale del procedimento penale, in alcuni casi del tutto obbligato: la “mera” iscrizione nel registro degli indagati.

L’istituto della sospensione facoltativa è invece regolato da una “norma speciale” di ordinamento giudiziario diretta a realizzare un meditato equilibrio tra esigenze di autotutela dell’istituzione consiliare e di garanzia del singolo componente in pendenza di un procedimento penale, affidando al plenum del Consiglio la responsabilità politica ed istituzionale della scelta.

Finalità, contenuti, ambito e modalità di applicazione delle due norme sono dunque diversissimi ed il raffronto tra di esse mostra con evidenza come la “sospensione facoltativa” che può essere deliberata dal Consiglio risponda ad istanze e rifletta equilibri propri e specifici dell’istituzione consiliare.

La conseguenza che ne deriva è tanto ovvia da risultare, almeno in questo caso, scolastica [8]lex specialis derogat generali.

Ovvero, la legge generale posteriore (l’art. 335 bis c.p.p.) non può precludere l’applicazione della legge speciale anteriore (l’art. 37 della legge n. 195 del 1958) che resta la legge applicabile al caso concreto della consigliera indagata.

L’ipotesi dell’abrogazione implicita si rivela dunque vuota e causidica ed appare come una mera suggestione evocata per eludere il nodo centrale della vicenda: l’assunzione di responsabilità dei membri del Consiglio sulla posizione della Natoli e sulla legittimità e opportunità della sua permanenza in seno all’organismo consiliare.

Ancora sull’art. 335 bis del codice di rito: l’iscrizione nel registro degli indagati e gli ulteriori elementi valutabili dall’autorità civile o amministrativa

Del resto, che il tema della responsabilità dei componenti del Consiglio non sia eludibile è dimostrato anche da ulteriori considerazioni riguardanti la normativa applicabile.

Anche chi – ignorando le più elementari regole sul conflitto di norme – voglia sostenere che la recente previsione dettata dalla legge Cartabia possa avere una qualche applicazione nella vicenda della consigliera Natoli, deve riconoscere che la norma richiamata ha una portata circoscritta che la rende comunque irrilevante nella fattispecie concreta.

L’art. 335 bis del codice di procedura mira infatti ad escludere gli effetti pregiudizievoli della “mera” iscrizione del nominativo di una persona nel registro degli indagati, con lo scopo di evitare dannosi automatismi negativi conseguenti all’iscrizione.

Nel caso Natoli, invece, vi è decisamente molto di più della mera iscrizione se si pensa che il Consiglio Superiore ha direttamente ricevuto e poi trasmesso alla Procura della Repubblica di Roma la registrazione audio del colloquio tra la giudice Natoli e l’incolpata Maria Fascetto Sivillo dalla quale sono già emersi chiari e consistenti elementi di una condotta qualificabile come rivelazione di segreto di ufficio [9].

Al riguardo, nel passo relativo all’innovazione dell’art. 335 bis c.p.p. contenuto nella Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione sulla Riforma Cartabia (Rel. n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023) si legge : «Ad essere precluso [come è dato leggere nella relazione illustrativa] è l’utilizzo, in via esclusiva, del solo dato relativo all’iscrizione che, da solo, non può essere posto a fondamento della motivazione di provvedimenti o in ogni caso di determinazioni pregiudizievoli per il cittadino. La disposizione di cui all’art. 335-bis, espressione della volontà del legislatore di limitare gli effetti pregiudizievoli dell’iscrizione della notizia nel registro degli indagati, potrebbe rivelarsi non effettivamente utile, in quanto, se è vero che l’autorità amministrativa o civile non può valorizzare il solo dato dell’iscrizione nell’adozione dei provvedimenti, non è espressamente impedito l’utilizzo autonomo in sede civile o amministrativa degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione né, d’altra parte, la divulgazione mediatica dell’iscrizione».

Aderendo a queste ragionevoli osservazioni – pienamente giustificate dalla lettera dell’art. 335 bis c.p.p. che fa riferimento alla mera iscrizione nel registro degli indagati – si deve ritenere che la ricezione da parte del CSM della registrazione del colloquio “incriminato” consenta all’organo di governo autonomo di esaminare e valutare questa documentazione ai fini della decisione sulla sospensione facoltativa.

Infine, per avere un quadro completo delle regole riguardanti la produzione di effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa per la persona sottoposta alle indagini occorre leggere l’art. 335 bis c.p.p., unitamente all’art. 110 quater delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale.

Quest’ultima norma stabilisce che «Le disposizioni da cui derivano effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa per la persona sottoposta alle indagini devono intendersi nel senso che esse si applicano comunque alla persona nei cui confronti è stata emessa una misura cautela personale o è stata esercitata l’azione penale».

Sulla scorta di queste norme la disciplina degli effetti pregiudizievoli civili o amministrativi della fase iniziale di un procedimento penale nei confronti della generalità dei cittadini può essere ricostruita su tre livelli.

Il primo: la mera iscrizione nel registro degli indagati non può produrre effetti pregiudizievoli sul piano civile o amministrativo per la generalità degli indagati (salvo l’esistenza di regimi speciali dettati per rispondere a particolari esigenze istituzionali…).

Il secondo: elementi ulteriori rispetto all’iscrizione – siano essi indiziari o divulgati dalla stampa – possono essere valutati ed utilizzati dall’autorità civile o amministrativa, unitamente all’iscrizione stessa, ai fini della determinazione di effetti pregiudizievoli sul piano civile o amministrativo nei confronti dell’indagato.

Il terzo livello è quello fissato dall’art. 110 quater disp. att. c.p.p. secondo cui effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa per la persona sottoposta alle indagini sono «comunque» applicabili alla persona nei cui confronti è stata emessa una misura cautela personale o è stata esercitata l’azione penale (cioè nei confronti dell’imputato).

In sintesi: esclusione di effetti negativi per la mera iscrizione, regime di valutazione discrezionale nel caso di iscrizione accompagnata da ulteriori elementi, applicazione piena delle disposizioni pregiudizievoli nei confronti del destinatario di una misura cautelare o nei confronti dell’imputato.

Riportando questo regime normativo al caso Natoli si ha la conferma che, anche a voler negare alla disciplina della sospensione facoltativa la natura di norma speciale – inderogabile dall’art. 335 bis c.p.p. – la possibilità di votare la sospensione non sarebbe comunque preclusa dalla riforma Cartabia giacché allo stato, nei confronti della consigliera non vi è solo il dato dell’iscrizione nel registro degli indagati ma ricorrono ulteriori elementi indiziari di cui il Consiglio ha già preso visione.

Da ultimo, ma non certo per ultimo, la complessiva lettura dell’istituto della sospensione facoltativa sin qui offerta non è sorretta solo da considerazioni letterali o sistematiche ma anche dall’argomento “sulle conseguenze” [10].

Se si dovesse negare la discrezionalità del Consiglio nel decidere – già nella fase delle indagini e sia pure con le forti garanzie procedurali più volte ricordate – sulla portata e gravità della pendenza di un procedimento penale a carico di un consigliere e sulla sua possibilità di continuare a partecipare all’attività consiliare, l’organo di governo autonomo resterebbe disarmato e incapace di tutelarsi in una vasta gamma di ipotesi e segnatamente in tutti i casi nei quali si proceda per reati gravi che richiedano indagini non brevi senza che sussistano i requisiti per l’adozione di misure cautelari.

Effetto, questo, evidentemente aberrante in un ordinamento che regola accuratamente le ipotesi di sospensione e decadenza dei membri del Consiglio Superiore proprio per evitare che situazioni critiche dei consiglieri togati e laici si ripercuotano negativamente sull’organo cui appartengono.

La sottoposizione a procedimento penale per delitto non colposo

Infine, per dissipare le interessate suggestioni che possono addensarsi sui profili giuridici della vicenda al fine di cercare alibi e giustificazioni all’insipienza morale ed istituzionale di chi tutto vorrebbe insabbiare, vale la pena di spendere qualche considerazione sul presupposto oggettivo della sospensione facoltativa: la sottoposizione a procedimento penale per delitto non colposo.

Sebbene la norma risalga al 1958 – epoca nella quale vigeva il codice di procedura del 1930 e non esisteva la distinzione tra indagato ed imputato – sembra evidente che essa, per la sua lettera e per la sua ratio, si riferisca oggi principalmente all’indagato.

Sul piano della lettera, infatti, non vi è dubbio che l’essere sottoposto a procedimento penale descriva perfettamente la condizione dell’indagato nel nuovo codice di procedura.

Quanto alla finalità dell’istituto della sospensione facoltativa è soprattutto nella fase delle indagini preliminari che la possibilità del consigliere indagato di restare o meno al suo posto deve essere valutata discrezionalmente dal Consiglio e decisa con le elevate garanzie procedurali contemplate dalla legge sul funzionamento del Consiglio del 1958.

In linea di principio, dunque, già nella veste di indagato un consigliere può essere oggetto di una decisione dei suoi pari che stabilisca se deve essere sospeso dalle funzioni o se può continuare ad esercitare le sue funzioni.

Ciò detto, anche se nelle more del procedimento, è stato abrogato il reato di abuso di ufficio (ed anche se proprio questo caso potrebbe fornire l’esempio dei gravi effetti di tale abolitio criminis) resta a carico della consigliera Natoli il procedimento per il “delitto non colposo” di rivelazione di segreto di ufficio.

Procedimento che, a prescindere dal suo eventuale trasferimento per ragioni di competenza territoriale, costituisce comunque l’oggettivo ed attuale presupposto della procedura finalizzata a decidere sulla sospensione.

La responsabilità dei membri del Consiglio

In conclusione: sgombrato il campo da alibi pretestuosi e da immaginarie foglie di fico normative sembra venuto il momento del diritto.

E, con esso, il momento della responsabilità di tutti i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura per l’autotutela dell’organo.

Il destino della consiliatura – e cioè se essa potrà svolgersi in un clima di credibilità e di ripristinata fiducia nell’istituzione consiliare o sarà destinata ad essere continuamente inquinata da polemiche e sospetti – è nelle mani dei consiglieri chiamati ad una attenta valutazione dei fatti e ad una impegnativa decisione.

L’esperienza del passato insegna che comportamenti responsabili dei componenti del Consiglio possono essere decisivi per salvaguardarne l’immagine e la credibilità.

In passato ciò è avvenuto anche grazie alle dimissioni di chi era stato a vario titolo toccato dalla vicenda dell’Hotel Champagne; vicenda grave quanto si vuole, ma pur sempre attinente alla sfera dell’amministrazione della giurisdizione e non a quella della giustizia disciplinare.

Oggi, nella perdurante assenza di dimissioni pur a fronte della compromissione della giurisdizione disciplinare, spetta ai “pari” della consigliera coinvolta assumere le loro responsabilità con decisioni dirette a ripristinare la fisiologia della vita istituzionale del Consiglio.

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Note

[1] Essendo il procedimento penale nella sua fase iniziale non dovrebbe essere applicabile il principio della perpetuatio iurisdictionis, come da ultimo ribadito dalla sentenza delle Sezioni Unite penali n. 48590 del 18.4.2019, secondo cui tale principio, inteso come immutabilità della competenza a fini di certezza ed economia processuale e di tutela della ragionevole durata del processo, non può che riferirsi alla contestazione risultante dal complessivo vaglio del giudice dell’udienza preliminare sull’accusa formulata dal pubblico ministero e alla conseguente individuazione del giudice naturale operata sulla base dell’esito di quel controllo.

[2] Sul punto mi sia consentito di rinviare al mio scritto Etica, professionalità e disciplina della magistratura, in L’ordinamento giudiziario, Quaderno n. 9 della Scuola Superiore della Magistratura, Roma, 2022, pp. 177-205. La valorizzazione del codice etico avrebbe richiesto impegni e adempimenti che per pigrizia culturale ed istituzionale sono mancati : una più ampia pubblicizzazione del codice, forme istituzionali e permanenti di sua divulgazione (quale, ad esempio, l’affissione all’ingresso di tutti i tribunali), la presentazione sistematica nelle scuole, un invio del testo in tutte le sedi istituzionali ed in tutti i giornali, in modo da rendere ampiamente noti e per questa via più cogenti ed esigibili gli impegni di comportamento assunti dai magistrati.

[3] Sulla natura giurisdizionale del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati cfr. Rita Sanlorenzo, La giustizia disciplinare dei magistrati. Natura del procedimento, ruolo e organizzazione della Procura generale della Corte di Cassazione. Quali prospettive a seguito dell’istituzione dell’Alta Corte disciplinare? su questa Rivista on line, 19.6.2024. In giurisprudenza sul tema cfr. da ultimo Cons. di Stato, sent. n. 4014 del 2 maggio 2024, che ribadisce il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa sulla natura giurisdizionale e non amministrativa del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, sostenendo che ciò vale anche nella fase che precede la formulazione dell’incolpazione ovvero della archiviazione della notizia.

[4] Così in una intervista a Il Fatto quotidiano del 26 luglio 2024 l’ex consigliere laico prof. Alberto Maria Benedetti.

[5] In questi termini si è espresso l’ex consigliere laico prof. Fulvio Gigliotti in una intervista a Il Fatto quotidiano del 28 luglio 2024.

[6] Questo l’intero testo dell’art. 37 della legge 24 marzo 1958 n. 195.
«(Sospensione e decadenza).
I componenti del Consiglio superiore possono essere sospesi dalla carica se sottoposti a procedimento penale per delitto non colposo.
I componenti del Consiglio superiore sono sospesi di diritto dalla carica quando contro di essi sia emesso ordine o mandato di cattura ovvero quando ne sia convalidato l’arresto per qualsiasi reato.
I magistrati componenti il Consiglio superiore sono sospesi di diritto dalla carica se, sottoposti a procedimento disciplinare, sono stati sospesi a norma dell’articolo 30 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511.
I componenti del Consiglio superiore decadono di diritto dalla carica se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo.
I magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento.
La sospensione e la decadenza sono deliberate dal Consiglio superiore. La sospensione facoltativa è deliberata a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi dei componenti.
Nei casi di proscioglimento per una causa estintiva del reato, ovvero per impromovibilità o improseguibilità dell’azione penale, relativi a componenti eletti dal Parlamento, il Presidente del Consiglio superiore ne dà comunicazione ai Presidenti delle due Camere, le quali decidono se debba farsi luogo a sostituzione».

[7] Il testo dell’art. 335 bis cpp è stato introdotto dall’art. 15, comma 1, lett. b) del D.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150 (c.d. riforma Cartabia).

[8] Sulla moderna visione della specialità che qui, per evidenti ragioni, non può essere approfondita si rinvia a S. Zorzetto, La norma speciale. Una nozione ingannevole, Pisa 2010; R. Guastini, Interpretare e argomentare, Milano 2011, pp. 116 e ss e A. Celotto, Fonti del diritto e antinomie, Torino 2014.

[9] Di utile lettura al riguardo è la relazione n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023 dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione sulla Riforma Cartabia nel passo relativo all’innovazione dell’art. 335 bis c.p.p. Ecco il passaggio relativo all’art. 335 bis c.p.p. : «Nell’art. 335-bis di nuovo conio si stabilisce, infine, che l’iscrizione nel registro degli indagati non può «da sola» produrre effetti pregiudizievoli in sede civile e amministrativa. Con tale disposizione, in attuazione dello specifico criterio di delega di cui all’art. 1, comma 9, lett. s) della legge n. 134, si è inteso circoscrivere nell’ambito del procedimento penale la rilevanza della valutazione compiuta dall’autorità inquirente al momento dell’iscrizione della persona sottoposta a indagini nel registro. «Ad essere precluso [come è dato leggere nella relazione illustrativa] è l’utilizzo, in via esclusiva, del solo dato relativo all’iscrizione che, da solo, non può essere posto a fondamento della motivazione di provvedimenti o in ogni caso di determinazioni pregiudizievoli per il cittadino». La disposizione di cui all’art. 335-bis, espressione della volontà del legislatore di limitare gli effetti pregiudizievoli dell’iscrizione della notizia nel registro degli indagati, potrebbe rivelarsi non effettivamente utile, in quanto, se è vero che l’autorità amministrativa o civile non può valorizzare il solo dato dell’iscrizione nell’adozione dei provvedimenti, non è espressamente impedito l’utilizzo autonomo in sede civile o amministrativa degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione né, d’altra parte, la divulgazione mediatica dell’iscrizione. L’anzidetto principio stabilito nell’art. 335-bis può essere derogato (con conseguente possibilità, ad esempio, della sospensione del servizio dell’attivazione di un procedimento disciplinare), a norma dell’art. 110-quater disp att. cod. proc. pen., nei casi in cui l’indagato sia sottoposto ad una misura cautelare personale o il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale. A tal proposito, deve evidenziarsi che il legislatore delegato non ha abrogato espressamente tutte le norme dell’ordinamento che fanno discendere effetti pregiudizievoli dalla mera sottoposizione a procedimento penale, ma si è limitato a introdurre l’art. 110-quater disp. att. cod. proc. pen. secondo cui “Fermo quanto previsto dall’articolo 335-bis del codice, le disposizioni da cui derivano effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa per la persona sottoposta a indagini devono intendersi nel senso che esse si applichino comunque alla persona nei cui confronti è stata emessa una misura cautelare personale o è stata esercitata l’azione penale”. In tal modo l’art. 335-bis cod. proc. pen. finisce per rivestire una valenza integrativa di tutte le disposizioni, già presenti nell’ordinamento, che riconnettono alla qualità di indagato effetti pregiudizievoli di tipo amministrativo o civile, limitandone l’applicazione ai soli casi in cui sia stata adottata una misura cautelare o sia stata esercitata l’azione penale. In sostanza, ferma restando la possibilità, desumibile dall’art. 335-bis del codice, di far discendere effetti pregiudizievoli da una valutazione basata sulla sottoposizione a procedimento penale più altri elementi, quando la disposizione preveda un effetto pregiudizievole automatico (si pensi a quanto disposto nell’art. 463-bis cod. civ., secondo cui «sono sospesi dalla successione il coniuge, anche legalmente separato, nonché la parte dell’unione civile indagati per l’omicidio volontario o tentato nei confronti dell’altro coniuge o dell’altra parte dell’unione civile»), questo, di regola, deve essere ricondotto alla sottoposizione a una misura cautelare personale o al processo vero e proprio».

[10] Su questa forma di argomentazione, particolarmente valida in ambito giuridico quando i dati letterali e sistematici di due interpretazioni si equivalgano cfr. C. Perelmann, L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, ed. it. Torino, Einaudi, 2013, in particolare pp. 288-293.

* Direttore Questione Giustizia

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