Se lo Stato scende a patti con i boss
Quella tra settori delle istituzioni e clan dei Casalesi è solo l’ultima di una lunga serie. A più riprese nella storia del nostro Paese emergono elementi e prove di quello che sembra un vero e proprio “dialogo” tra Stato e mafie. Che si tratti della gestione dei rifiuti in Campania, su cui sta indagando la Dda di Napoli, oppure di bloccare la violenza stragista dei corleonesi, politici, poliziotti e boss hanno più volte interagito ben oltre il consentito. Una tra le prime trattative che videro impegnati uomini delle istituzioni con i clan mafiosi fu quella relativa al rapimento di Ciro Cirillo. Il politico campano, assessore all’urbanistica nell’immediato post – terremoto dell’Irpinia, fu rapito a Torre del Greco da un commando di brigatisti nel 1981.
Per ottenerne la liberazione si mosse l’intero stato maggiore della Dc, chiedendo aiuto al boss della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. Don Raffaé sarebbe stato avvicinato da uomini dei servizi nel super carcere di Ascoli Piceno. In cambio della collaborazione avrebbe ricevuto in offerta soldi e sconti di pena per i suoi. Grazie al lavoro di Cutolo, e alla generosa “collaborazione” degli imprenditori edili napoletani che si sarebbero offerti di pagare il riscatto, fu possibile garantire l’incolumità a Ciro Cirillo, una volta che le Br incassarono la somma richiesta. «Un patto scellerato» tra la Dc e la Camorra, lo definì il Giudice istruttore Carlo Alemi nell’ordinanza di rinvio a giudizio del 1988. Per tutta risposta l’allora Ministro degli interni Antonio Gava, potente politico campano della Dc, definì Alemi: «Un Giudice che si è posto fuori dal circuito costituzionale». Di sicuro, quella fu una vicenda intricata che non ha avuto tutti i riscontri in sede processuale.
La “trattativa” per antonomasia è quella che lo Stato avrebbe svolto con Cosa nostra tra il 1992 e il 1993. Patti, accordi, papelli, depistaggi che segnarono la stagione delle Stragi e assestarono il colpo mortale a una morente Prima Repubblica. Di trattative, secondo le ultime ricostruzioni, se ne giocarono molte. Una prima per convincere i boss corleonesi a porre fine alla stagione delle bombe che sfociò nel “papello” che Totò Riina fece consegnare al Ros dei Carabinieri tramite Vito Ciancimino. Il documento originale è stato consegnato da Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, ai magistrati di Palermo che seguono le indagini.
Un’altra trattativa ruoterebbe attorno all’arresto, sempre da parte del Ros, del boss Totò Riina. Operazione gestita con l’ausilio di Bernardo Provenzano, pronto a subentrare a Totò u curtu nel ruolo di capo dei capi. La mancata perquisizione del covo di Riina e, soprattutto, la mancata cattura di Provenzano sembrerebbero favorire questa tesi. L’interesse dello Stato sarebbe stato quello di favorire l’ascesa di Binnu u tratturi, favorevole ad abbandonare la linea dello scontro diretto con le istituzioni per una più morbida, e fruttuosa, strategia dell’insabbiamento. Omicidi eccellenti, inoltre, sarebbero stati “caldeggiati” da uomini dei servizi per togliere di mezzo personaggi scomodi. Sarebbe questo il caso di Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale dei Carabinieri nominato Prefetto di Palermo e ucciso dopo soli cento giorni dal suo insediamento. Secondo le rivelazioni di alcuni pentiti l’omicidio di Dalla Chiesa sarebbe stato un “servizio” che Cosa nostra avrebbe fatto a settori delle istituzioni preoccupati dall’operato del Generale. Una chiave di lettura simile può essere usata per la strage di Via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.
Troppi indizi, portano diretti ai servizi segreti e ad apparati dello Stato. L’omicidio di un magistrato così importante a breve distanza dall’attentato a Giovanni Falcone non avrebbe favorito la strategia della mafia. Le indagini, riaperte, avrebbero subito una pesante azione di depistaggio. Uomini dei servizi si aggiravano nella zona di via D’Amelio il giorno della strage. Il funzionario di polizia Arnaldo La Barbera, a capo del gruppo Falcone – Borsellino, da recenti acquisizioni dei magistrati, sarebbe stato a libro paga dei servizi segreti. Proprio le indagini seguite da La Barbera avrebbero portato a un clamoroso depistaggio concentrandosi sulla figura di Vincenzo Scarantino, piccolo balordo di quartiere trasformato in pentito di mafia.
L’ombra dei servizi arriva anche a Reggio Calabria. Dietro la strategia adottata dalla ‘ndrangheta contro i magistrati della città dello Stretto sono in molti a vederne lo zampino. Personaggi equivoci che dichiarano di collaborare con l’intelligence, ufficiali del Ros che informano i boss delle operazioni in corso garantendone la fuga. Uomini delle istituzioni che si mettono a disposizione delle cosche, senza chiedere nulla in cambio. Ad esempio, nell’intercettazione ambientale inserita nell’operazione “Il Crimine” il boss di San Luca Giuseppe Pelle è informato da Giovanni Ficara, della famiglia Ficara – Latella di Reggio Calabria, di un contatto importante in grado di fornire informazioni ai clan. «FICARA G.: Questo qua, amico nostro è uno dell’Aeronautica, dove lavora, solo che è nei Servizi Segreti. PELLE G.: Ah, ah, ah! FICARA G.: E qualche due del ROS, nei Servizi Segreti pure». Ficara, inoltre, specifica che il contatto non vuole nulla in cambio: «FICARA G.: non vuole soldi, non vuole niente, se gli voglio portare io una bottiglia… PELLE G.: Gliela portate, sennò niente. FICARA G.: …Se non ché, lo fa per amicizia, perché è “riggitano”…».
Una storia trasversale quella dei contatti tra istituzioni e mafie. Lunga nel tempo e pericolosa per la vita democratica del nostro Paese.
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