Usa, voglia di normalità
Voglia di normalità. Così si potrebbe definire il senso del discorso di accettazione della candidatura alla Casa Bianca da parte di Kamala Harris.
La normalità della democrazia parlamentare, dell’accettazione dei risultati elettorali, dei verdetti della magistratura. Di tutte quelle cose insomma messe a rischio dal neopopulismo trumpiano.
C’era molta attesa per le parole di Kamala. Trump l’ha dipinta come una via di mezzo fra Lenin e Maduro. Esagerazioni certo, ma sufficienti a spaventare la classe media bianca americana. Così Kamala ha pronunciato un discorso molto attento cesellato parola per parola dagli spin doctors del partito democratico: “Sarò il presidente di tutti gli americani aldilà delle divisioni fra i partiti”. Quasi una eco delle parole della Regina dei Talk Show Oprah Winfrey. “Noi siamo una nazione di gente che quando brucia la casa del vicino – aveva detto Oprah – non ci domandiamo se quel vicino vota democratico o repubblicano, se è bianco o nero, se è gay o lesbica, ma corriamo a spegnere l’incendio e a salvarlo”.
“Sarò una Presidente realistica, pratica e di buon senso”, ha aggiunto Kamala.
Poi le promesse: lotta ai grandi potentati economici ma anche ai trafficanti di esseri umani, investimenti e aiuti alla classe media, la stessa – ha precisato -da cui provengo.
Tutto il discorso è stato attento a tenere insieme tutte le diverse fasce elettorali. “Metterò insieme imprese e sindacati per sviluppare l’economia, difendere l’ambiente ma conosco l’importanza di una frontiera sicura. Difenderò la nostra forza militare, continuerò ad appoggiare la Nato e a difendere l’Ucraina”. Sul medio oriente è stata prudentissima: “Garantisco la sicurezza di Israele ma difendo dignità e libertà dei palestinesi.
Era il passaggio più difficile. La convention ha accolto trionfalmente i i genitori di Hersh Goldberg-Polin il ragazzo ebreo americano ancora prigioniero di Hamas. Ma non ha dato la parola a quei delegati di origine palestinese che avrebbero voluto parlare dal palco. Una tensione palpabile che però non è sfociata negli scontri di piazza che si prevedevano. Le manifestazioni pro pal fuori dallo United Stadium ci sono state ma non oceaniche né violente.
La macchina democratica ha saputo far tesoro degli errori del 1968 quando il sindaco democratico di Chicago Daley usò il pugno duro e il contraccolpo di quegli scontri favorì la campagna legge e ordine del repubblicano Nixon. C’è da dire che allora i giovani americani manifestavano con il terrore di essere chiamati a combattere in Vietnam, mentre oggi Gaza sembra essere più lontana da Chicago rispetto alla Saigon di allora.
Le parole d’ordine scandite alla fine da Kamala sono state: libertà, compassione, dignità, ottimismo e fede nel futuro. Con un risvolto patriottico: abbiamo l’orgoglio di essere americani. Quasi a voler strappare dalle mani di Trump la bandiera a stelle e strisce.
Una battaglia politica per il futuro della nazione rispetto al passato che il candidato repubblicano continua ad evocare (Make America great again), grande come una volta.
Nei prossimi due mesi sapremo se questo messaggio farà presa sugli elettori.
Fonte: Articolo 21
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