Se il pregiudizio ostile stravolge la Costituzione
Su «il Giornale», quotidiano di punta del centro-destra, il direttore Alessandro Sallusti ha ipotizzato (o profetizzato) un’indagine per traffico di influenze contro Arianna Meloni, sorella della premier Giorgia.
L’editoriale ha scatenato un putiferio di reazioni indignate da parte di esponenti fra i più autorevoli di Fratelli d’Italia e la stessa premier ha finito per dichiararlo «verosimile», riconducendolo a un metodo «visto e rivisto usato per sconfiggere un nemico politico che vince nelle urne la competizione democratica».
Non ci sono riscontri allo stato degli atti, per cui verrebbe da commentare la vicenda con il classico «tanto rumore per nulla». Anche perché sullo sfondo si coglie una sorta di strabismo, nel senso che si parla di traffico di influenze sebbene questo reato sia stato recentemente depotenziato proprio dal governo Meloni, rendendolo punibile unicamente se vi è un vantaggio economico e non solo politico.
Minimizzare sarebbe però assai pericoloso.
Innanzitutto perché secondo logica e buon senso se persino la Presidente del Consiglio si agita vien fatto di pensare che si sappia qualcosa di più di quel che si dice. Ma allora si potrebbe obiettare che il famigerato asse procure-giornali-politica, se davvero esiste, si manifesterebbe anche in questo caso e non sarebbe un’esclusiva della sinistra.
Poi perché viene riproposto un atteggiamento devastante per la credibilità della nostra democrazia, a suo tempo propagandato senza risparmio da Silvio Berlusconi e dai suoi epigoni con uscite ad effetto tipo: «Chi è stato scelto dai cittadini per governare deve poterlo fare senza che ci siano interventi esterni come ad esempio quelli dell’ordine giudiziario»; oppure «una sentenza non può valere più del voto di milioni di italiani» ed è «eversivo il PM che utilizza i suoi poteri per andare contro le indicazioni del corpo elettorale».
Un vero e proprio pregiudizio ostile che tradisce l’insofferenza verso l’obbligatorietà dell’azione penale e l’esercizio davvero indipendente della giurisdizione, da parte di chi vorrebbe che la giustizia italiana rimanesse costantemente prigioniera di una «inefficienza efficiente», vale a dire una giustizia che proprio non funzionando possa di fatto salvaguardare certi interessi che il controllo di legalità lo considerano roba non per sé ma buona solo per gli altri.
In ogni caso, si ricomincia da capo con la logora tesi del giustizialismo. Non si può non premettere ancora una volta che questa parola nel vocabolario della lingua italiana fino a pochi anni fa esisteva soltanto in quanto riferita alla politica del presidente argentino J. D. Peron, ispirata a nazionalismo, autarchia e populismo, senza che la giustizia c’entrasse in qualche modo.
Oggi invece ce la troviamo perché un bello spirito, di certo lungimirante, ha pensato bene di usarla, in materia di reati di natura politica o di criminalità organizzata o di disonestà nell’amministrazione, contro le iniziative giudiziarie ritenute – spesso a prescindere – troppo rigorose e severe. Come un cartellino rosso brandito per squalificare preventivamente chi, facendo il suo dovere, osa affrontare certi problemi violando i confini di santuari tradizionalmente inaccessibili e protetti.
E poco importa se in questo modo si usa violenza alla parola garantismo che è il contrario di giustizialismo. Si introducono infatti un garantismo «strumentale», diretto a depotenziare la magistratura (che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico) e un parallelo garantismo «selettivo» (che gradua le regole in base allo status sociale dell’imputato). L’uno e l’altro negazione del garantismo «classico», secondo il quale le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio.
Questo stravolgimento delle parole e del loro significato può andar bene in un mondo orwelliano, ma di sicuro non si confà a un ordinamento che voglia restare fedele ai principi fondamentali della democrazia come disegnata nella nostra Carta costituzionale. È comunque un lusso che non ci possiamo permettere.
Fonte: La Stampa
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