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Misteri e domande

Luigi Li Gotti * il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria, Sicilia

Ho impiegato tempo per superare le incertezze nell’esprimere per iscritto le mie opinioni su fatti di cosa nostra e dintorni. Poi ho capito che alcune cose bisogna metterle nero su bianco e non limitarne l’espressione in conversazioni estemporanee.

Ci sono domande alle quali non riesco a dare risposta. Non si tratta di interrogativi banali che ben possono rimanere non esauditi.

Le mie domande insolute, attengono invece allo specifico scenario di una delle pagine più laceranti della nostra storia che, pur esplorata nei possibili risvolti, rimane una pagina aperta.

Questa pagina è divenuta, nel corso del tempo, un campo di battaglia con l’impressione che si stia affermando la normalizzazione con una lettura minimalista.

Diventa quindi un obbligo morale, quello di non lasciare cadere le domande, perché non è vero che i cittadini non vogliono più sapere e che il desiderio di verità si sia affievolito.

Ho deciso, allora, di mettere in fila le mie domande da lanciare contro il muro dei normalizzatori, consapevole che questo schieramento non ha una ideologia e una appartenenza. Lo faccio, perché difendo la mia libertà e non si è liberi senza verità.

Nel 1996, litigai con Pino Arlacchi (passato all’Italia dei Valori con provenienza Pci), perché aveva dichiarato che il 1° luglio del 1992, non fosse vero che Paolo Borsellino, avesse interrotto l’interrogatorio di Gaspare Mutolo, per recarsi al Ministero dell’Interno ed incontrare il nuovo ministro Nicolò Mancino, subentrato ad Enzo Scotti.

Arlacchi scrisse che Borsellino aveva interrotto l’interrogatorio di Gaspare Mutolo, per recarsi da lui e consigliarsi sulla vociferata notizia di possibile nomina a Procuratore Nazionale Antimafia. Arlacchi aggiunse pure che piccole e grandi trattative con la mafia c’erano sempre state e che si meravigliava molto del clamore nascente sui contatti ROS-Vito Ciancimino.

Ne rimasi sconcertato, essendo stato presente all’interrogatorio, interrotto, di Gaspare Mutolo con i magistrati Paolo Borsellino e Vittorio Aliquò. Io sapevo che quell’interrogatorio era stato interrotto (e poi ripreso), perché sopraggiunse la necessità della visita al Viminale, dopo una telefonata del Capo della Polizia, Parisi.

Io attesi in quell’appartamento spoglio, nei pressi di Piazza della Libertà in Roma, con Mutolo, Gianni De Gennaro, Franco Gratteri e poliziotti in servizio, il rientro di Borsellino ed Aliquò. Nell’attesa, Mutolo mi raccontò del filone dei mafiosi in carcere, colpiti da vena artistica e che lui stesso aveva fatto i quadri che il detenuto Luciano Leggio, si attribuì, organizzando una mostra, con buone vendite.

Non riuscivo, quindi, a capire la sortita di Arlacchi e quale fosse la ragione, lo scopo, la finalità, il bisogno, l’interesse ad affermare pubblicamente, un fatto non vero.

Anni dopo, ero componente della Commissione parlamentare antimafia, non riuscii a capire la forte avversità dell’on. Alfredo Mantovano, sottosegretario agli Interni (in quota AN), a Gaspare Spatuzza, il collaboratore di giustizia che aveva svelato il depistaggio di Scarantino, con elementi di conoscenza diretta inconfutabili.

Per Mantovano, Spatuzza non meritava il programma di protezione per i collaboratori di giustizia e le sue dichiarazioni non avevano diritto ad entrare nei processi.

Mi chiesi chi poteva avere interesse a che non si riaprisse l’indagine sulla strage di via D’Amelio, con il coinvolgimento dei fratelli Graviano (gli sponsor del primo e più importante circolo di Forza Italia a Palermo).

Il Col. Mario Mori, deponendo a Caltanissetta (processo per via D’Amelio), riferì che aveva incontrato Paolo Borsellino, l’ultima volta prima della sua uccisione, il 25 giugno 1992 e che non poté riferirgli dei contatti avviati con Vito Ciancimino, in quanto (ed esibì la sua agenda) l’incontro con Ciancimino, era del 5 agosto (quindi ben dopo l’ultimo incontro con Borsellino, del 25 giugno). Disse anche che la materia dell’incontro riservato (Caserma Carini, per evitare occhi indiscreti), era stato il rapporto ROS mafia-appalti. Dopo circa tre lustri, si è accertato che il Col. Mori e il Gen. Subranni (capo del ROS), erano stati a cena con Borsellino, il 10 luglio 1992.

Chiesi, in Commissione Antimafia, a Subranni, se si fosse parlato, a cena, dei contatti avviati con Vito Ciancimino (il cap. De Donno del ROS, aveva invero riferito di contatti avviati agli inizi del giugno 1992), e Subranni rispose che quello non era stato un argomento trattato e che Borsellino era di ottimo umore, tant’è che gli ridevano gli occhi.

Ma come è pensabile che Borsellino, che aveva la morte negli occhi, dicendo che era arrivato il tritolo per lui, potesse ridere in quei giorni e di cosa?

Perché Mori, dichiarò sotto giuramento, di avere incontrato per l’ultima volta Borsellino, il 25 giugno 1992 e che i contatti con Ciancimino non vi erano ancora stati?

Poi si accertò che invece il contatto con Ciancimino, era stato avviato da De Donno, sin da prima del 15 giugno 1992, poiché in quella data v’era stato, al Ministero della Giustizia, l’incontro con il magistrato Liliana Ferraro (subentrata a Giovanni Falcone, dopo Capaci, agli Affari Penali), per chiedere una sorta di copertura politica per la trattativa – termine utilizzato da Mori – con Riina e Provenzano, tramite Vito Ciancimino.

Il Col. Mori, a Caltanissetta, dichiarò anche che Vito Ciancimino, gli chiese chi lui rappresentasse. Al che Mori, ritenendo troppo generico ed ovvio l’indicare il superiore gerarchico Gen. Subranni, s’era inventato di parlare a nome di non specificati ambienti politico-istituzionali.

Mi parve strana la coincidenza della asserita invenzione di Mori e il contatto vero di De Donno con la dott. Liliana Ferraro, per la copertura politica della avviata trattativa (così definita da Mori).

Mi parve altresì inquietante che il Ministro della Giustizia, Claudio Martelli, riferisse del contrasto con il Ministro dell’Interno, Mancino, per l’iniziativa della trattativa avviata con i vertici di Cosa Nostra.

Così come rimane sconosciuto il contenuto delle pressioni di Mancino sul Quirinale, perché fosse scongiurato il confronto, in sede giudiziaria, con Martelli, considerato che Mancino aveva negato sia d’aver incontrato Borsellino l’1 luglio 1992 e sia la circostanza del disappunto di Martelli.

Era normale che la parola di due Ministri della Repubblica, contraria l’una all’altra, fosse oggetto di confronto.

Perché Mancino voleva scongiurare il faccia a faccia? Perché si chiese al Procuratore Generale della Cassazione, un intervento sul Procuratore Nazionale Antimafia dott. Pietro Grasso, per scongiurare il confronto con Martelli? Perché addirittura si attivò in tal senso, il Presidente della Repubblica?

Purtroppo quelle conversazioni telefoniche intercettate, sono state distrutte, su richiesta del Presidente Giorgio Napolitano che ricorse anche alla Corte Costituzionale (il suo consulente giuridico Loris D’Ambrosio, ne morì di crepacuore, dopo aver scritto una angustiata lettera sui colloqui con Mancino e Napolitano). Cosa ci è stato impedito di sapere? Perché il Presidente della Repubblica, ne volle la distruzione? Perché non dobbiamo mai più sapere?

Il 28 giugno 1992, la dott.ssa Liliana Ferraro incontrò all’aeroporto di Fiumicino, il dott. Borsellino e gli riferì della trattativa avviata. Al che Borsellino, rispose, tagliando corto, che sapeva già.

Da chi era stato avvisato Borsellino, avendo Mori addirittura negato il contatto con Ciancimino?

E’ legittimo l’interrogativo su quale sia stata la vera ragione dell’incontro, del 25 giugno 1992 alla Caserma Carini, di Borsellino con Mori e De Donno?

Se fosse vero che la materia dell’incontro fu il rapporto mafia-appalti, come mai il Col. Mori non riferì a Borsellino che di tale rapporto, erano state redatte due versioni e quella inviata alla Procura di Palermo, era con contenuto ripulito, ossia senza il riferimento agli uomini politici di rango nazionale? Perché a Giovanni Falcone, in trasferimento al Ministero, venne consegnato dal ROS, un rapporto incompleto?

Perché il ROS, non trasmise alla Procura di Palermo le intercettazioni di Salvo Lima su materia di appalti, pur dopo l’uccisione di questi? A che titolo e ragione, non si volle che Palermo sapesse e si volle, invece, che rimanesse un segreto, pur se il ROS aveva intercettato su delega della Procura?

Perché Borsellino, doveva ignorare il contenuto delle intercettazioni, pur se aveva manifestato un forte interesse per il rapporto mafia-appalti, avendone fatto oggetto (come riferito da Mori e De Donno), di incontro riservato alla Caserma Carini? Perché Mori ha tenuto a riferire, nei processi, della grande stima e fiducia (ricambiata) che lo legava a Borsellino, ma gli negava la conoscenza delle intercettazioni più delicate?

Come mai, sino al 2010, la Procura di Palermo, ignorò l’esistenza di una relazione predisposta dalla stessa procura (Procuratore Caselli) per la Commissione Parlamentare Antimafia, che ricostruiva la storia del dossier mafia-appalti? Quale oggetto ebbero le conversazioni di Calogero Mannino con il Gen. Subranni?

Come mai la preparazione dell’omicidio di Calogero Mannino (che doveva seguire a Capaci), venne bloccata da Salvatore Riina che spiegò, ad altri capi mandamento, che si erano fatti sotto?

Quali furono le ragioni che fecero dire a Riina, nell’ottobre 1992, che era necessario un altro colpetto (con preparazione dell’attentato, a Monreale, a Piero Grasso)?

Perché Mori continuò ad incontrare Ciancimino sino a gennaio 1993?

Perché la disponibilità di Ciancimino, si limitò al possibile contributo per la cattura di Riina e Provenzano sparì dal periscopio?

Perché non venne arrestato Provenzano, pur individuato? Veramente non venne arrestato, perché c’erano le pecore che pascolavano e c’era il rischio di far vittime in un eventuale conflitto a fuoco?

Ed è normale che il Presidente del Consiglio Giuliano Amato, in carica durante l’offensiva omicidiaria e stragista, abbia affermato, in Commissione Antimafia, che non si interessò di quanto stava accadendo (una offensiva stragista senza precedenti), perché totalmente assorbito e distratto dal problema dei conti pubblici?

Ebbene, ora, la nuova commissione antimafia di matrice meloniana, si sta impegnando a riscrivere la strage di via D’Amelio, così da consegnarla agli annali, con il sigillo politico.

E così non se ne parli più.

Insomma il tracciato è quello che tutto sarebbe un fatto interno al Palazzo di Giustizia di Palermo, ruotante intorno alla figura sinistra del Procuratore della Repubblica dell’epoca, Pietro Giammanco.

E quindi basta con la parola trattativa che, come un incubo, insegue la coscienza di vecchie e nuove falangi di sbianchettatori.

Abili penne, in questi anni, hanno scritto e riscritto di trattativa-boiata pazzesca.

Giuseppe Sottile, già firma di punta de L’Ora, ne ha scritto sul Foglio:

E di teorema in teorema è nata la “boiata pazzesca” della Trattativa: un altro maxiprocesso nel quale non c’erano né prove né un movente in grado di reggere il patto scellerato tra lo Stato e Cosa Nostra. C’era solo un aggrovigliato e inverosimile gioco di specchi tra due pataccari: da un lato Massimo Ciancimino, diventato all’improvviso il ventriloquo del padre, quel Don Vito che fu uomo dei corleonesi e anche sindaco di Palermo; dall’altro lato Giovanni Brusca, il feroce boss che schiacciò il telecomando di Capaci e che dopo avere confessato la strage e altri cento omicidi, grazie alla Trattativa l’ha fatta franca: ha avuto anche oltre ottanta permessi per alleggerire la sua pena e ora si gode felicemente la sua libertà.

E chi se ne frega se i due pataccari – coccolati dai magistrati di riferimento – hanno scaricato macigni di infamia e di disonore su gente che non aveva mai trattato con i boss, come l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, o su quegli alti ufficiali dei carabinieri, come i generali Mario Mori e Antonio Subranni, che negli anni immediatamente successivi alle stragi avevano arrestato Riina e fatto di tutto per arginare il terrore mafioso. Chi se ne frega se hanno dovuto aspettare più di dieci anni perché una Corte d’appello accertasse la loro innocenza.

Certo, c’è qualche vuoto di memoria nell’analisi di Sottile, come l’assenza di una sola parola sulla mancata perquisizione di Via Bernini, con sorveglianza smantellata, per un disguido, alle 16 dello stesso giorno dell’arresto di Totò Riina, pur dopo le ampie assicurazioni di tenere tutto sotto controllo nella speranza di catturare altri mafiosi che ivi si fossero recati (come in effetti ivi si recarono per ripulire un po’ tutto, cassaforte compresa).

Addirittura organizzando una finta perquisizione in altra e distante località di Palermo, per indurre a credere che non si sapesse nulla di via Bernini, si da far scattare qualche trappola. A che doveva servire il depistaggio da via Bernini, se non c’era più il controllo e la possibilità della trappola?

Certo, anni dopo, l’ex capitano De Donno, presente Mori, disse pubblicamente che via Bernini era da tempo controllata con numerose telecamere (mai però se ne è saputa dell’esistenza e mai sono state acquisite in un processo). Se veramente c’erano telecamere, chi immortalarono? Chi conserva le riprese di quelle telecamere?

Poi qualcuno ha detto che il cap. De Donno, si era forse confuso e dopo tanti anni i ricordi si affievoliscono. Che significa affievolimento di un ricordo in positivo, affermato pubblicamente (ma non in un’aula di giustizia), alla presenza di Mori? Hanno mai smentito Mori e De Donno?

Ma cosa si vuole che sia tutto ciò?

Poi sono scesi in campo i cattedratici di chiara ed indiscussa fama, come il Prof. Fiandaca, mostrando irritazione al solo sentire pronunziare la parola trattativa.

Ma commettono un errore, perché la vicenda via D’Amelio, attira e respinge, inquieta e infastidisce. Ma non sarà collocata nell’album dei ricordi.

È proprio così percorribile la strada della rimozione?

La Sentenza della Cassazione, ha suscitato giubilo a destra e anche a sinistra. Eppure, deve essere letta. Cosa dice?

La trattativa ci fu ma non è un reato, essendo contestata la violenza e minaccia al Governo, ossia la finalità della trattativa ma non la trattativa in sé.

Il criterio generale da adottare per giungere ad una condanna è quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Se tale soglia non si supera, non può esserci condanna. I giudici di merito, hanno applicato una regola vietata, ossia quella della presunzione frutto di altra presunzione. Invero i giudici di merito, hanno fatto spesso ricorso alla espressione è plausibile.

Senonché non è provato, oltre ogni ragionevole dubbio, che gli uomini dello Stato che condussero la trattativa, siano stati latori della minaccia, proveniente dai mafiosi, al governo. E’ fortemente plausibile ma non assolutamente certo.

Sicché il reato di minaccia al governo, contestato ai mafiosi, deve essere derubricato in tentativo, in assenza di prova certa della veicolazione della minaccia. Così derubricato a tentativo, il reato è prescritto per decorso del tempo.

La derubricazione in tentativo per i mafiosi, comporta l’assoluzione degli uomini dello Stato che fecero la trattativa, in quanto non v’è la prova che quella minaccia (che ci fu) sia stata veicolata al Governo dagli uomini delle istituzioni (è ciò recide sul nascere la questione dell’elemento soggettivo della condotta).

In conclusione, gli sbianchettatori, non si sono liberati dall’incubo della trattativa.

La discesa in campo della Commissione antimafia, sarà il frullatore delle parole che si scambiano e scrivono, come fosse un conforto consolatorio circolare reciproco.

Ma il coperchio generoso del frullatore salterà e la maionese impazzirà.

* Avvocato e politico

Fonte: ANTIMAFIADuemila, 02/08/2024

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