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Omicidio Agostino, motivazioni sentenza Madonia: ”Sul delitto depistaggio istituzionale”

Jamil El Sadi * il . Corruzione, Forze dell'Ordine, Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia

I giudici: “Agostino ucciso perché cercava latitanti mafiosi. Permangono zone d’ombra tipiche delle stragi”

“Diversi sono gli esponenti istituzionali cui può addebitarsi di avere scientemente o per negligenza ritardato o fuorviato lo sviluppo delle indagini, con silenzi, omissioni, reticenze o addirittura interventi di manipolazione o soppressione delle fonti di prova”. Non usa giri di parole il presidente della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, Angelo Pellino, nelle motivazioni appena depositate con le quali lo scorso 5 ottobre i giudici della Corte hanno confermato l’ergastolo al boss Nino Madonia per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie incinta Ida Castelluccio. Un delitto di mafia – e non solo – avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini.

Parallelo a questo troncone processuale, celebrato con rito abbreviato, ce n’é un altro – con rito ordinario – che vede imputati, davanti alla Corte d’Assise presieduta da Sergio Gulotta, il boss dell’Acquasanta Gaetano Scotto e Francesco Paolo Rizzuto, sedicente amico di infanzia dell’agente Agostino: rispettivamente accusati di duplice omicidio aggravato in concorso e di favoreggiamento aggravato.

Nelle motivazioni della sentenza depositata oggi, i giudici mettono a fuoco il ruolo che il boss Nino Madonia ricopriva all’epoca dei fatti in Cosa nostra sulla base di risultanze sulla figura di Giovanni Aiello (alias ‘Faccia da mostro’) e i suoi rapporti con l’ex 007 del Sisde Bruno Contrada. Si fa riferimento diretto alle “collusioni mafiose di alti funzionari di polizia e appartenenti ai Servizi”; ai rapporti del clan Galatolo-Madonia con appartenenti agli apparati di polizia o gravitanti nell’ambito dei Servizi; alla vicenda dei “cacciatori di taglie” e la relativa catena di delitti; alla carriera criminale di Antonino Madonia; ai “depistaggi ascrivibili ad alcuni degli inquirenti dell’epoca” ma, “in primo luogo, all’attività investigativa segretamente svolta dall’agente Agostino”. Ovvero, la ricerca e la cattura di latitanti di mafia di primo livello. Attività che ben presto lo avrebbe condotto nel mirino di Cosa nostra.

Depistaggio istituzionale

Nelle motivazioni della sentenza, oltre a Cosa nostra il giudice Pellino chiama in causa lo Stato facendo esplicito riferimento al “depistaggio istituzionale” che ha caratterizzato il duplice delitto Agostino-Castelluccio. Basti rammentare, per i giudici, “le reticenze o le tardive e parziali ammissioni” di Elio Antinoro, del Commissariato San Lorenzo presso il quale Agostino prestava servizio, “il quale minimizza i compiti dell’agente al punto di tacere mansioni che pure risultavano dai fogli di servizio, come il servizio di vigilanza al Reparto Detenuti dell’Ospedale Civico o quello di addetto all’ascolto delle intercettazioni; e nega che Agostino fosse motivato e propositivo sul lavoro e che avesse interesse per l’attività investigativa, salvo ammettere solo nel 2016 che un paio di volte gli aveva prospettato di avere la possibilità di raccogliere informazioni di interesse investigativo, affrettandosi però a dire che tale evenienza non si concretizzò mai”.

Antinoro, inoltre, “ha taciuto, fino al 2016, sulla diffusione di elenchi nominativi di latitanti mafiosi, con annesse taglie, distribuite presso i commissariati di polizia, incluso quello di San Lorenzo, da funzionari del Sisde; come ha taciuto, fino al 2016, sul coinvolgimento dell’agente Agostino in un servizio delicato e assolutamente riservato come quello di scorta al sedicente collaboratore Alberto Volo”.

Così come per anni, incalzano i giudici nelle motivazioni della sentenza d’appello, “ha taciuto sull’incontro con il giudice Falcone e sulla domanda da questi rivoltagli se ritenesse che l’omicidio Agostino avesse qualcosa a che vedere con l’indagine che stavano conducendo sulla base delle rivelazioni del predetto Volo: un interrogativo del quale Antinoro non sa dare alcuna spiegazione”.

Sempre sul punto, nelle motivazioni si legge che il giudice Falcone “non poteva avere formulato una congettura di quel genere solo per avere notato Agostino tra i poliziotti occasionalmente di scorta a Volo. E non può escludersi che al medesimo filone d’indagine alludesse l’avvertimento rivolto dallo stesso Falcone al commissario Montalbano, quando si incontrarono alla camera ardente dell’agente Agostino allestita al commissariato San Lorenzo (“Occhio Montalbano, questa è una cosa diretta contro di me e contro di te”), poiché in epoca che approssimativamente colloca tra il 1988 e il 1989, Montalbano era stato ‘informalmente’ delegato dal giudice Falcone ad una serie di accertamenti per verificare se il terrorista nero Fioravanti, indicato da Volo come autore dell’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, si fosse recato in Sicilia all’epoca del delitto e per ricostruirne gli spostamenti”.

Da Guido Paolilli ad Arnaldo La Barbera…

A supporto della “pista istituzionale”, per i giudici c’è anche “la distruzione da parte del poliziotto in pensione Guido Paolilli”, che aveva provveduto a reclutare lo stesso Agostino, di “una freca di carte” (come disse lo stesso Paolilli, ndr) rinvenute nell’armadio di Nino, in occasione della perquisizione domiciliare cui prese parte nella notte tra il 7 e l’8 agosto 1989 “e il suo decisivo input a battere la (falsa) pista Aversa; e in anni successivi le pesanti pressioni se non le velate minacce: ‘finiamo tutti in galera’ rivolte ai familiari del poliziotto ucciso, affinché lo informassero e si attenessero ai suoi suggerimenti su cosa dire, nel caso in cui gli inquirenti avessero loro fatto domande su possibili collegamenti con i fatti dell’Addaura. E i suoi silenzi o le sue persistenti reticenze, sulla vera natura dei timori che Agostino gli aveva esternato negli ultimi tempi, con particolare riguardo alle preoccupazioni per parentele mafiose della moglie.

I giudici hanno dedicato ampio spazio nelle motivazioni al ruolo, “complesso da decifrare”, di Arnaldo La Barbera, ex capo della Squadra mobile di Palermo. “Basti però qui ricordare che è lui ad assumere personalmente la direzione delle indagini e a sposare fin dall’inizio la tesi che riconduceva il movente alla relazione sentimentale che aveva legato la vittima a Lia Aversa, fino a firmare il rapporto giudiziario del 27 settembre, e a insistere su quella pista, almeno fino a quando alla I sezione della Squadra mobile non si insedierà il dottor Luigi Savina”.

E in seguito, “avrebbe addirittura tentato di depistare ancora le indagini attraverso il falso pentito Vincenzo Scarantino, facendogli credere che le indagini sul duplice omicidio Agostino-Castelluccio portavano a lui, e così tentando di indurlo ad accollarsi anche questo delitto: ciò è quanto ha rivelato dello stesso Scarantino all’udienza del 4 giugno 2015 del processo Borsellino quater. Il tentativo però sarebbe fallito, sempre a dire dello Scarantino, per non avere egli voluto falsamente auto accusarsi, in aggiunta all’essersi già falsamente autoaccusatosi di avere partecipato alla strage di Via d’Amelio, anche di un’ulteriore mostruosità, quale quella di avere assassinato l’Agente Agostino e la giovane moglie”.

Il ruolo di Madonia e la matrice mafiosa del delitto

Entrati a far parte del “gotha” di Cosa nostra all’inizio degli anni ’70, i Madonia si affermano nella zona di Resuttana dopo la prima guerra di mafia, durante la quale furono interessate le zone di San Lorenzo e Acquasanta, in particolare. Una guerra finita con l’epurazione di una serie di soggetti ritenuti pericolosi per i Corleonesi e l’avanzare da parte di quest’ultimi verso Palermo. 

“Una pulizia etnica, più che una guerra”, come la definì il procuratore nazionale antimafia Domenico Gozzo durante la requisitoria del processo a carico di Scotto e Rizzuto. Nel tempo i Madonia sono entrati nella cerchia ristretta dei fedelissimi di Totò Riina. Nino Madonia godeva della piena fiducia di Riina al punto da essere autonomo anche se fedelissimo di Riina. Al punto tale da poter commettere reati anche al di fuori del mandamento e intrattenere rapporti proficui con i servizi segreti per conto di Cosa nostra. Tra questi anche il delitto Agostino-Castelluccio.

Il giudice Pellino, infatti, nelle motivazioni della sentenza a suo carico ribadisce che il boss avrebbe “pianificato e organizzato l’azione in forza del proprio ruolo di estremo rilievo di Cosa nostra”, ed in specie del mandamento mafioso palermitano di Resuttana di cui risultava reggente, con le seguenti modalità: acquisendo preventivamente informazioni sulle abitudini ed i movimenti delle vittime; individuando il luogo di esecuzione nei pressi della dimora estiva della famiglia Agostino a Villagrazia di Carini, lungomare Cristoforo Colombo; assicurandosi la disponibilità di un’arma da sparo clandestina, precisamente una pistola calibro 38; procurandosi la disponibilità di una motocicletta di grossa cilindrata rubata, una Honda Africa Twin, in grado di garantire il rapido accesso nel luogo di esecuzione dell’omicidio, nonché la immediata fuga; individuando un luogo, nelle vicinanze al luogo di esecuzione, in cui procedere, successivamente all’omicidio, alla distruzione per incendio della moto.

Il poliziotto Paolilli avrebbe tentato di accreditare la pista sentimentale, ma già il giudice di primo grado l’aveva reputata infondata e del tutto inconsistente, rivelatasi, scrivono i giudici di secondo grado, “una pista forzata e indotta dal Paolilli; facendo propria invece la tesi che attribuisce al duplice omicidio una sicura matrice mafiosa”, sottolineando che, dopo l’allontanamento di Paolilli e l’avvicendamento del suo dirigente, la stessa Squadra mobile di Palermo aveva abbandonato l’ipotesi del delitto per “motivi d’onore” (adombrata nel precedente rapporto del 27 settembre 1989), già nel successivo rapporto redatto il 10 gennaio 1990 aveva fatto espresso riferimento alla matrice mafiosa del delitto: matrice che, d’altra parte, “era stata già indicata nelle primissime segnalazioni inviate alla procura della Repubblica di Palermo (rapporto del 10 gennaio 1990: “Come peraltro è stato possibile evincere dalla prima segnalazione inviata a codesta Procura della Repubblica, è apparso sufficientemente verosimile che l’efferato duplice omicidio sia da ascrivere a sicura matrice mafiosa, considerati gli elementi obiettivi e soggettivi a disposizione. Non potendosi escludere che la causa del delitto possa essere attribuita ad una qualche attività investigativa svolta dall’agente al di fuori dei meri compiti di Istituto”). Il movente ipotizzato in relazione alla scoperta da parte di Agostino di incontri e contatti di esponenti di vertice delle forze dell’ordine, legati agli ambienti dei Servizi con la cosca dei Galatolo e con lo stesso Nino Madonia, “tornerebbe a conferma non solo della matrice mafiosa del duplice omicidio, ma anche di un concreto e diretto interesse dei vertici del mandamento retto all’epoca proprio dall’imputato all’eliminazione di quel poliziotto che pericolosamente, per loro, si aggirava nel cuore del loro territorio (già teatro di incontri particolarmente riservati anche con esponenti delle forze dell’ordine e dei Servizi di sicurezza che nel tempo avevano rafforzato il potere di quella famiglia e dei loro alleati all’interno dell’organizzazione mafiosa)”.

Vicolo Pipitone: la holding dei Galatolo e dei Madonia

Uno dei punti nevralgici individuato dall’Agostino era costituito da quel Vicolo Pipitone che allora rappresenteva il centro catalizzatore del “mandamento” di Resuttana, luogo di summit e affari, ma anche il luogo in cui i Madonia “intrattenevano rapporti con esponenti dei Servizi di sicurezza (da Contrada a La Barbera sino a Giovanni Aiello)”. Vicolo Pipitone era il cuore nevralgico della holding del mandamento mafioso dei Galatolo e dei Madonia.

L’attività svolta da Agostino nei mesi antecedenti il suo omicidio “era divenuta altamente pericolosa proprio per l’ordinario svolgimento delle attività mafiose del territorio del mandamento di Resuttana”, soprattutto per l’attivismo che la caratterizzava e che conduceva l’Agostino persino ad impegnarsi in quella direzione anche al di fuori del suo orario di lavoro e senza disposizioni di servizio in tal senso, fatto che, peraltro, contrastava con gli “equilibri” che in quel territorio “era stato possibile trovare con le forze dell’ordine (emblematica appare in proposito la condotta del Comandante della Stazione dei carabinieri lì di stanza di cui hanno riferito concordemente Vito e Giovanna Galatolo, oltre che Angelo Fontana e Vito Lo Forte).

Incertezze residuano, rilevano i giudici, “anche sulla possibilità che a far precipitare la decisione di uccidere Agostino, abbia concorso il rischio che egli potesse rivelare i legami collusivi di autorevoli appartenenti alle forze dell’ordine con esponenti mafiosi”: ipotesi che troverebbe appiglio in alcune fonti dichiarative; e che però, “non varrebbe comunque a delineare un movente alternativo alla pista mafiosa e anzi si radicherebbe perfettamente nell’ambito di una ricostruzione che postula il coinvolgimento dei Madonia, perché sarebbero state proprio le incaute proiezioni di Agostino nel territorio dell’Acquasanta, feudo dei Galatolo Madonia a fargli scoprire, o a metterlo nelle condizioni di scoprire, quegli intrecci collusivi”. Ma tutto ciò non toglie, scrivono i giudici, “che almeno alcuni risultati ragionevolmente certi possono dirsi conseguiti”. E la prima certezza “è la sussistenza di un interesse specifico e concreto di Cosa nostra a eliminare l’agente Agostino”. Con “il convincimento di questa Corte” che Agostino fu ucciso “a causa dell’impegno profuso nel suo lavoro, e più precisamente nell’attività investigativa mirata alla cattura di importanti latitanti mafiosi che egli stava svolgendo, al di fuori delle sue mansioni ufficiali e compiti di istituto”.

Era “precipuo interesse di Cosa nostra”, scrivono i giudici d’appello, e segnatamente dei Madonia, “eliminare un poliziotto rivelatosi un ficcanaso”, che “andava curiosando” nel cuore del loro territorio in un periodo in cui Vicolo Pipitone era teatro, tra l’altro, di “incontri riservati con esponenti delle istituzioni e quindi poteva rappresentare una minaccia per la sicurezza e l’impunità delle attività illecite della locale cosca mafiosa, anche sotto il profilo di una proficua e sicura perpetuazione di quei contatti che rappresentavano per il sodalizio mafioso capeggiato dai Madonia, una risorsa strategica di assoluto rilievo”.

Uno di quegli esponenti istituzionali di alto livello “è stato identificato in Bruno Contrada”, incrociando le dichiarazioni dei vari collaboratori di giustizia che ne hanno parlato. Vito Galatolo rammenta che in occasione di uno di questi incontri vide Agostino e il collega Emanuele Piazza fare ingresso a Vicolo Pipitone ed andare ad appostarsi in fondo al Vicolo, pochi minuti prima che arrivassero Giovanni Aiello e Bruno Contrada. “Al di là dei rapporti specifici con Arnaldo La Barbera – scrivono ancora i giudici – il collaboratore Vito Galatolo è stato perentorio nel confermare che i suoi parenti, così come i Madonia godevano di protezioni all’interno degli apparati investigativi e di polizia, grazie alle quali venivano informati di eventuali perquisizioni o operazioni di polizia nel loro territorio; e in caso di mandati di cattura, loro lo sapevano prima”.

Zone d’ombra: un copione ripetuto nel tempo

I giudici, infine, scrivono che “permangono zone d’ombra, secondo un copione tristemente ripetutosi non solo nei processi per le stragi del 1992 e del 1993, ma in molti dei processi che hanno avuto ad oggetto omicidi c.d. eccellenti o comunque fatti delittuosi ai danni di esponenti istituzionali, politici, magistrati, sulla possibilità che altre entità, esterne a Cosa nostra abbiano concorso a commetterli, o che nella loro genesi e alla base delle relative deliberazioni vi sia stata una convergenza di interessi mafiosi e anche esterni all’organizzazione mafiosa”.

Per la Corte d’assise d’appello di Palermo “su tutti – si legge nelle motivazioni – si staglia l’ombra di un coinvolgimento dei Servizi, alludendo ovviamente ad apparati deviati dei servizi di sicurezza o delle forze dell’ordine. Un copione che si è ripetuto in questo processo come, per non andare troppo lontano anche cronologicamente, per la vicenda dell’attentato all’Addaura, rispetto alla quale per anni si è ipotizzato un possibile collegamento con il duplice omicidio di Villagrazia di Carini, di cui in effetti non v’è prova, e che deve anzi escludersi, anche alla luce delle risultanze raccolte in questo processo (a corredo di quelle già scrutinate nei processi celebrati e definiti con sentenze passate in cosa giudicata sull’attentato del 20-21 giugno 1989)”.

AntimafiaDuemila

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