Corruzione, il lessico mancante
“Traffico di influenze”, “corruzione tra privati”, “autoriciclaggio”. Sono questi alcuni dei vocaboli che l’Italia deve affrettarsi a far entrare nel proprio “dizionario”, strumento fondamentale per comprendere e combattere la corruzione. Pena l’impossibilità di fronteggiare, nel breve periodo, l’impietoso straripare del fenomeno, che già oggi, dati alla mano, costa al nostro Paese più di sessanta miliardi di euro annui. Che la portata del problema sia enorme e conseguentemente difficile da contenere è un dato di fatto, ma questo, invece di stimolare la politica ad approntare repentini assestamenti legislativi ha, di fatto, portato a proclami di facciata che di concreto, al giorno d’oggi, hanno ben poco. E il Paese continua a barcamenarsi alle soglie di un baratro sempre più prossimo. A patto che non ci sia ancora accorti di esserci già finiti dentro.
Secondo il Codice penale italiano la corruzione rientra nei cosiddetti “delitti contro la pubblica amministrazione” ed è sanzionata, (articoli che vanno dal 318c.p al 320 c.p) relativamente a diversi tipi di reato, per atti di ufficio, contrari ai doveri di ufficio, per atti giudiziari e per persone incaricate di pubblici servizi. Il limitare questo reato a un rapporto tra pubblico (corrotto) e privato (corruttore) esclude, di fatto, ogni trattativa tra soli privati, e rappresenta un elemento di discontinuità rispetto ad altre realtà (europee per esempio) dove la corruzione tra privati esiste. Perseguirlo sarebbe un qualcosa di importante soprattutto nella realtà italiana dove le commistioni pubblico-privato degli ultimi venti anni potrebbero essere sciolte con una legislatura più al passo coi tempi.
L’impegno, quantomeno, all’inizio sembrava esserci. Già nel 1999 l’Italia aveva, in quel di Strasburgo, firmato la Convenzione penale europea sulla corruzione, uno strumento, che nelle intenzioni dell’Unione era «teso a coordinare la penalizzazione di un gran numero di pratiche corrotte» e prevedeva «ulteriori misure nel campo del diritto penale e una migliore cooperazione internazionale per perseguire i reati di corruzione». Nella cerchia dei reati nel mirino si andava corruzione di pubblici ufficiali nazionali e stranieri; di parlamentari nazionali e stranieri e di membri di assemblee parlamentari internazionali, alla corruzione nel settore privato, di funzionari internazionali, nazionali, stranieri ed internazionali e di funzionari di tribunali internazionali. Fino al traffico di influenze attivo e passivo, riciclaggio dei proventi della corruzione, ai reati contabili. Tutti casi per cui si chiedevano «sanzioni e misure efficaci e dissuasive, ivi compresa la privazione della libertà, fino all’estradizione». Da una firma, a una ratifica, e al conseguente cambiamento normativo per mettere in atto i dettami della Convenzione passa molto. Infatti l’Italia è ancora ferma ai blocchi di partenza.
Un timido tentativo è stato fatto con il cosiddetto “Ddl anticorruzione”, che lanciato mesi fa, è ormai insabbiato in Senato, senza una sostanziale volontà di portarlo alla luce in maniera definitiva. Tra le sue pieghe si parla di istituire un Osservatorio sulla corruzione; maggior trasparenza negli appalti, nei contributi e nelle assunzioni. Nulla di concreto, al momento. Difficile però che pensare che non ci sia bisogno di qualcosa di più sostanzioso. L’introduzione di un nuovo “lessico” giuridico permetterebbe di perseguire un sistema corruttivo sempre più modernizzato, punendo la già citata corruzione tra privati e anche il traffico di influenze illecite, ovvero il comportamento di chi prende tangenti per far ottenere a chi versa i soldi favori da un pubblico ufficiale, fungendo in sostanza da intermediario. Senza dimenticare che alcune leggi, come la ex-Cirielli, permettono che la corruzione si prescriva 7 anni e mezzo dopo che è stata commessa, e quella giudiziaria dopo 10. E non sorprende nemmeno che oltre a non legiferare lo Stato non metta in pratica quanto già è stato approvato dal Parlamento.
Con un comma contenuto nella Legge Finanziaria 2007, ad esempio, venne introdotta la possibilità di confisca anche per i reati di corruzione, concussione, peculato. Attraverso il comma 220 si andò modificare la legge 7 agosto 1992 n. 356), stabilendo di fatto che anche nei casi di condanna per corruzione, concussione e peculato «è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica». Comma purtroppo dimenticato, un punto da cui ripartire, per costruire un nuovo lessico anticorruzione in Italia
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