L’idea che non muore
«L’immenso scalpore, sì a lungo durato intorno al fatto in discorso (delitto Matteotti), fa singolare contrasto con la indifferenza ostentata dai sedicenti paladini della morale e della libertà per le tante vittime della criminalità politica dell’immediato dopo-guerra… Queste stragi di disinteressati fautori di un’idea, in tempi di roventi lotte politiche, valevano bene l’uccisione di un deputato, capo-partito, che della politica faceva professione esclusiva, ritraendone onori e vantaggi, e che da sé stesso si era posto in condizione di vivere pericolosamente. Ma politica e malafede sono spesso la stessa cosa, e questo spiega il perché della frenetica speculazione sulla morte di Matteotti, morte che si volle considerare, non quale un incerto del mestiere di demagogo, ma addirittura come un attentato contro il popolo…Dracma perit et invenitur in stercore».
Chi scrive è uno dei più autorevoli studiosi del Diritto Penale, Vincenzo Manzini, iscritto al Partito Nazionale Fascista nel 1925, all’indomani del celebre discorso di Mussolini del 3 gennaio, e futuro Accademico d’Italia. Il testo fa da premessa all’arringa pronunciata da Roberto Farinacci al processo di Chieti del 1926 in difesa dei responsabili dell’uccisione di Matteotti. Stampato in migliaia di copie dal quotidiano di Farinacci “Cremona nuova”, l’opuscolo scomparve provvidenzialmente dagli scaffali delle biblioteche dopo la caduta del fascismo. Ne resta una sola copia in un Istituto di Trieste.
La ruggine era antica e risaliva ad alcuni rilievi critici che Matteotti nel suo volume La Recidiva ( 1910 ) aveva avanzato all’opera di Manzini sulla Recidiva del 1899. La replica seccata di Manzini, senza entrare nel merito, così liquidava lo studio di Matteotti su “La Giustizia penale”: «Matteotti si limita a ruminare le idee di Stoppato in tutto ciò che non costituisce pedestre indagine statistica».
Eppure nella stessa rivista il lavoro di Matteotti era stato in precedenza segnalato come un «poderoso studio». Matteotti anche in seguito espresse numerose riserve sul Trattato di procedura penale italiana del Manzini (1914) e questo forse spiega, ma certo non giustifica, l’acrimonia di Manzini nei suoi confronti.
Negli stessi mesi un giovane e coraggioso magistrato, Vincenzo Chieppa, prendeva congedo dalla Associazione Magistrati d’Italia, di cui era segretario, sciolta nel dicembre 1925 per il rifiuto di trasformarsi in sindacato fascista. L’editoriale apparso su “La Magistratura” nell’ultimo numero del 15 gennaio 1926 titolava L’idea che non muore.
Il richiamo era a uno scritto di Giacomo Matteotti del 1923 dove il segretario del Partito Socialista Unitario affermava «La guerra prima, poi le conseguenti illusioni estremiste di ieri, la reazione e la violenza fascista di oggi, hanno interrotta e distrutta molta parte del nostro lavoro. Ebbene lo rifaremo! Il socialismo è un’idea che non muore! Come la libertà!».
A breve distanza Chieppa e altri vennero espulsi dalla magistratura. Poté essere riammesso solo nell’aprile 1945. Nobile testimonianza di quanti di fronte al fascismo non piegarono la testa, di fronte al fascismo a differenza dei tanti Manzini che, usciti indenni dal processo di epurazione, poterono proseguire la loro brillante carriera anche dopo la guerra.
Quanto al Matteotti giurista, egli ci ha lasciato un numero esiguo di scritti penalistici: un volume, dieci articoli e una monografia sulla Cassazione di circa 200 cartelle rimasta incompiuta. Sufficiente tuttavia, secondo Alessandro Stoppato, suo maestro nell’ateneo bolognese, a testimoniare «l’amore verace della ricerca» e «l’alto spirito di illuminata libera impassibilità» che avevano consentito a Matteotti di raggiungere una «posizione scientifica» e una «reputazione quale giurista colto e assennato». Nonostante le reiterate e affettuose sollecitazioni di Stoppato («disponga di me. Io sarò lieto di vederla salire») Matteotti rinunciò a presentarsi per la libera docenza sempre più impegnato in politica.
Venne così progressivamente abbandonando la scienza penalistica per dedicarsi interamente a problematiche di ordine economico e finanziario più funzionali al suo ruolo di dirigente e parlamentare socialista.
Matteotti per il suo “abito scientifico”, ma anche per le sue qualità umane («lo stimavo e l’amavo perché era di intelligenza eletta e di animo buono», Stoppato) fu apprezzato da giuristi di convinzioni opposte alle sue.
Dopo le numerose aggressioni e un sequestro seguito dal bando dal suo collegio, Alessandro Stoppato e Luigi Lucchini di fronte alle esplicite minacce fasciste e dello stesso Mussolini si adoperarono perché Matteotti evitasse ulteriormente di esporsi e tornasse per qualche tempo ai suoi «amati» studi giuridici. Il 10 maggio del 1924 Matteotti così rispondeva a Lucchini con parole che appaiono quasi un testamento: «Illustre Maestro, ritrovo qui la sua lettera gentile e non so come ringraziarLa delle espressioni a mio riguardo. Purtroppo non vedo prossimo il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso, per rivendicare quelli che sono, secondo me, i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna. Ma quando io potrò dedicare ancora qualche tempo agli studi prediletti, ricorderò sempre la profferta e l’atto cortese che dal Maestro mi sono venuti nei momenti più difficili».
A distanza di venti giorni, Matteotti testimoniava per l’ultima volta, dalla tribuna parlamentare, il suo alto senso del diritto richiamando la maggioranza all’«osservanza dell’autorità dello Stato e della legge… che è l’ultima essenza, la ragione morale della nazione». Il 10 giugno 1924 cinque sicari al soldo del Partito fascista si incaricarono di sopprimere Matteotti, «L’oppositore più intelligente e irriducibile» come ebbe a definirlo Piero Gobetti, perché nel Pese e alla Camera non risuonasse più la sua voce di accusa e di protesta.
Leonardo Sciascia, rievocando nella Sicilia come metafora i primi anni della sua infanzia, rammenta una «zia che si teneva il ritratto di Matteotti dentro un paniere in cui c’erano aghi, forbici, matassine di filo… Ogni tanto mi mostrava il ritratto e mi diceva che l’aveva fatto ammazzare “quello”. Non faceva mai il nome di Mussolini, ma io da Tatina, si chiamava così la cameriera, sapevo bene chi fosse “quello”.
E nel suo romanzo Porte aperte, indagando sui motivi del profondo radicamento del mito di Matteotti durante il Ventennio scrive: «Matteotti era stato considerato, tra gli oppositori del fascismo il più implacabile… perché parlava in nome del diritto, del diritto penale».
* Ordinario di storia contemporanea nell’Università di Siena
Fonte: Questione Giustizia
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