Le giornate della legalità e gli esempi quotidiani
Le giornate speciali sono sempre difficili da maneggiare. È necessario che ci siano, sarebbe meglio se non ci fossero. Se ci sono, vuol dire che sono lì a segnalare un problema irrisolto.
Ma quando ci sono, rischiano di assumere i contorni di una delega in bianco a qualcun altro al quale si dice: oggi me ne occupo io, per i restanti 364 giorni dell’anno fai tu. Vale per qualsiasi argomento.
Basti pensare che pochi giorni fa, lo scorso 21 marzo, era la Giornata internazionale delle foreste, quella per l’eliminazione della discriminazione razziale, della poesia, della sindrome di Down, della musica antica, della marionetta e delle vittime di mafia. Tra il serio e il leggero, il culturale e il sociale, un ottovolante di commemorazioni speciali o giornate di impegno a favore o contro qualcosa o qualcuno. Molto spesso “retorica gravando e spirito critico mancando”, commentava Leonardo Sciascia proprio ragionando sulla battaglia culturale e civile contro le mafie.
Quando poi le giornate diventano settimane, come quella che si è appena conclusa dedicata alla legalità, il peso della questione non può che moltiplicarsi. Le mattinate all’insegna del Diritto e della Giustizia nelle scuole, gli appuntamenti istituzionali, i racconti di operatrici e operatori del settore, gli interventi dei testimoni di legalità, i ricordi di chi è rimasto ferito o ucciso dalla violenza mafiosa o camorrista, le riflessioni di scrittori e intellettuali.
Il piacere quasi estetico, prima ancora che civile, di vedere intere classi di bambini e adolescenti ascoltare con attenzione quelle voci, prendere appunti, fare domande intelligenti, produrre idee, discutere assieme. Raccontare qualcosa a quei giovani si conferma ogni volta un’esperienza emozionante soprattutto per chi la fa, perché trova in quelle vite appena nate qualcosa di simile a una spugna che assorbe, che soffre con te, che partecipa dei tuoi ricordi e della tua sofferenza.
Poi, però, accade qualcosa. E quel che accade è un problema che dovremmo sottoporre a una riflessione profonda ma sempre rimandata o ignorata. Perché quello che succede è che dopo le giornate speciali traboccanti di buone intenzioni e commendevoli racconti quelle ragazze e quei ragazzi si trovano esposti a molti modelli, troppi, che vanno in direzione opposta.
Dove i modelli positivi di cui hanno sentito parlare fino a un’ora prima scarseggiano paurosamente e si affollano figure dubbie o ambigue di influencer, personaggi da baraccone del mondo social e mediatico i contenuti dei cui messaggi non poggiano affatto sui pilastri della legalità e della società civile ma su quelli di un individualismo sfrenato, di arricchimento illimitato, di proposta di modelli di vita basati su vacanze di lusso, bottiglie costose in locali tamarri. Oppure di violenza e protervia, di volontà di sopraffazione, di armi e arroganza.
A quei giovani noi diciamo “antimafia” e “legalità” dentro le scuole, intendendo riscatto, orgoglio civico, fiera opposizione e denuncia delle sottoculture di violenza e mafia. Ma quegli stessi giovani, un metro fuori dalle scuole, si trovano investiti dai messaggi cento, mille volte più potenti di grotteschi comunicatori digitali o mediatici che dicono certo, senza dirlo esplicitamente esattamente l’opposto.
Ecco che allora quella linea d’ombra tra il dentro e il fuori quello scollamento tra i racconti e la pratica delle nostre vite, tra quello che proponiamo come società con la mano sinistra e quello che facciamo con la destra diventa lo spazio oscuro dove la cultura della legalità e dell’antimafia diventa anestetico, un puro ornamento che va a cadere nello spazio vuoto di una società e di una coscienza civile priva di slancio. Anzi, dove lo slancio esiste eccome. Solo che va, come diceva il poeta, “in direzione ostinata e contraria”.
Fonte: Il Mattino
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