Peppino Valarioti. Il racconto di Carmela e l’amore che la ’ndrangheta non ha ucciso
Lo so, avete ragione. Ne è passato ormai di tempo dalla giornata della memoria “delle vittime innocenti di mafia”. Era giovedì scorso. Roba ormai stravecchia per i quotidiani.
Il fatto è che il 21 di marzo porta con sé ogni anno centinaia di piccole storie sconosciute, autentiche pepite che, come per una legge di gravità, sfuggono all’occhio dei mezzi di informazione; e che sono in grado invece di suscitare l’attenzione di “non giornalisti” come il sottoscritto.
Così fra le tante possibili dei giorni scorsi ce n’è una che mi si è ficcata nella memoria e proprio non se ne vuole andare, anche se è vecchia, addirittura di mercoledì pomeriggio. Ed è quella raccontata da una donna del Sud con la quale non ho mai parlato ma a cui ho voluto istintivamente bene.
Si chiama Carmela, Carmela Ferro. È stata lei ad aprire il seminario pomeridiano di Libera riservato ai familiari delle vittime. Una grande esperienza di incontro e di autocoscienza, se così si può dire, che si svolge a porte chiuse. Carmela è salita sull’altare bellissimo di Santa Maria in Trastevere sedendosi accanto a Daniela Marcone, la responsabile della “memoria” o dei “familiari” dell’associazione di don Ciotti. E forse per la prima volta si è raccontata. Asciutta, composta, l’emozione rigettata a fatica, così da potere tornare tra i banchi della chiesa senza singhiozzi. È stata la prima volta che l’ho sentita.
Carmela era la fidanzata di un simbolo dell’antimafia calabrese, Peppino Valarioti. Stesso nome di un simbolo dell’altra antimafia, quella siciliana, Peppino Impastato. Storie per tanti aspetti gemelle: stessa età (trent’anni) e stesso periodo di uccisione: il 1980 il secondo Peppino, il 1978 il primo. A far da teatro, anche in Calabria, un luogo simbolico del potere mafioso sul mar Tirreno, sempre sotto i 15mila abitanti, Rosarno qui e Cinisi lì.
Storie quasi parallele di due giovani “divisivi”, visto che il Peppino calabrese, insegnante, faceva politica anche lui, da segretario della locale sezione del partito comunista. Come non pensare alle somiglianze? Come non cogliere però anche, con qualche malinconia, la forza immensa del cinema nel regalare a uno rispetto all’altro una memoria collettiva di leggenda nelle nuove generazioni?
Ascoltavo dunque con qualche impalpabile senso di colpa Carmela, i capelli gentili e ingrigiti, mentre raccontava la sera di quell’11 giugno: la cena passata in un ristorante tra amici a festeggiare un successo elettorale ottenuto sull’onda di una grande mobilitazione antimafiosa, costellata da incendi e altre intimidazioni. Mi sembrava di vedere Peppino mentre lei lo raccontava con parole lente e precise. Di vederlo avviarsi solo in un viottolo a prendere l’auto per tornare a casa, abbattuto alla schiena dai sicari che l’avevano atteso nel silenzio.
Raccontava Carmela agli altri familiari, con una qualche tenerezza, che il suo Peppino era morto sentendo il profumo delle zagare poiché il ristorante era in un agrumeto. E lo diceva come se volesse malinconicamente spiegarci che era morto ricevendo quasi una carezza dal destino. Tanto più che l’ultimo rumore che aveva sentito era stato quello delle onde, mandatogli dal mare illuminato di stelle lì accanto. Questo lei sapeva con certezza.
Una cosa invece non sapeva e non potrà mai sapere. Quale fosse stato il suo ultimo pensiero “su questa terra”. Chissà se era stato per lei. Quando l’ha detto ho sentito la potenza di un amore irriducibile sollevarsi da quell’altare di Trastevere.
Credo, così mi è parso, l’abbia avvertita anche la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Chiara Colosimo, che dalla prima fila seguiva la testimonianza con rispetto ed emozione, nonostante le arrivasse da una storia “divisiva”.
A dimostrazione che a dividere, di fronte alla mafia, non possono mai essere le idee politiche. Pensateci: Falcone e Borsellino, dalla Chiesa e La Torre. A dividere è altro.
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 25/03/2024
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