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Sui beni confiscati alle mafie, l’Italia si gioca la credibilità

Lucrezia Ricchiuti il . Economia, Informazione, Istituzioni, Mafie

Signor direttore,

i fratelli Cavallotti, dapprima assolti con il giudizio abbreviato dal tribunale di Palermo (nel 2001) per associazione mafiosa, sono stati poi condannati dalla corte d’appello nel 2002. La stessa sentenza d’appello ha dichiarato prescritto il reato loro contestato di turbativa d’asta. La Cassazione però ha poi annullato la condanna con rinvio nel 2004. In sede di rinvio, i Cavallotti sono stati assolti dal fatto di essere partecipi a Cosa Nostra.

Nel frattempo però la magistratura aveva loro confiscato beni immobili e imprese, basandosi sul differente parametro della pericolosità di quei beni, se fossero rimasti nella loro disponibilità. La sentenza della Cassazione con cui la confisca di prevenzione dei beni dei Cavallotti è diventata definitiva nel 2016  dice chiaramente che le imprese nel settore del gas, che loro gestivano, appartenevano all’area contigua a  Cosa nostra.

Se in sede penale non era stato accertato oltre ogni ragionevole dubbio che essi appartenevano a Cosa Nostra, perché non era stato provato che vi fosse stato uno scambio contrattuale tra le loro imprese e i vertici di Cosa nostra (argomento di per sé già discutibile), in sede di prevenzione molti e concreti indizi portavano a ritenere che i Cavallotti potevano contare sull’appoggio di esponenti di primo piano della mafia siciliana. Solo per dirne una, Bernardo Provenzano li citava nei suoi pizzini.

Secondo la Cassazione, i Cavallotti erano inseriti nel piano strategico di gestione degli appalti, che Cosa Nostra adottava e controllava, secondo una precisa turnazione. Ci sono poi numerose dichiarazioni di collaboratori di giustizia, tutte convergenti, che hanno definito le imprese dei Cavallotti vicine al gotha mafioso, tanto da riuscire, per questo, ad aggiudicarsi appalti pubblici di importi importanti in tutta la Sicilia. Avvalendosi di avvocati le cui parcelle il lettore potrà immaginarsi, i Cavallotti adesso si sono rivolti alla Corte europea dei diritti di Strasburgo, lamentando che il loro diritto a essere presunti innocenti è stato violato. Essi sostengono che la confisca di prevenzione sarebbe una pena senza l’accertamento del reato che avrebbero commesso.

L’argomento è chiaramente pretestuoso.

La Cassazione argomenta che i Cavallotti non hanno saputo giustificare la loro espansione economica, come siano riusciti a trasformarsi da piccole ditte individuali di tipo familiare in grosse società di capitali, collegate fra loro e poi sfociate in un gruppo imprenditoriale. Lo stesso discorso vale per altre persone, comunque legate ai Cavallotti per parentela, che risultavano intestatarie di quote sociali di imprese ma che  all’epoca della loro costituzione erano disoccupate, braccianti agricoli oppure prive di capacità finanziarie tali da poter, per esempio, costruire (ai tempi) fabbricati del valore di centinaia di milioni di lire.

Purtroppo, però la Corte di Strasburgo ha invitato l’Italia a “difendersi”, spiegando le ragioni della confisca persistente nonostante l’assoluzione sul piano penale. Mi auguro che gli avvocati della Repubblica italiana  rintuzzino con ogni determinazione questo attacco frontale al sistema di contrasto delle mafie,  che ci viene invidiato nel mondo (tanto che l’Unione europea sta per adottare una normativa che prende  a modello proprio il nostro sistema di   confisca di prevenzione).

Basterebbe menzionare – quanto in generale ai fatti di mafia – questi precedenti:  massacro di Pio La Torre e Dalla Chiesa (1982);stragi di Capaci e Via d’Amelio (1992)e molti altri: l’elenco sarebbe  lungo. Chissà che i giudici di Strasburgo – che vengono da tutti i paesi europei (compresa quella Germania che ha visto la strage di ‘ndrangheta a Duisburg, nel 2007, con mezza dozzina di morti) – non se li facciano bastare.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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