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Via l’abuso d’ufficio. Giustizia senza etica

Gian Carlo Caselli il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica

Queste leggi minano il Paese. Così si rinuncia alla giustizia. Dopo Mani pulite sembrava prevalere la volontà di applicare regole uguali per tutti. Adesso è scomparsa anche la questione del rapporto tra etica e politica.

Gli “scandali” politico-giudiziari che in questi giorni hanno investito, coinvolto o lambito alcuni personaggi “eccellenti” riconducibili alla maggioranza di destra-centro hanno prodotto una raffica di interventi parlamentari.

Tra cancellazione dell’abuso d’ufficio (in barba all’Europa e agli avvertimenti del Capo dello Stato), ritocchi del traffico d’influenze, modifiche della legge Severino (per cancellare una buona volta l’onta della decadenza dal Senato del condannato Berlusconi), ricorrenti voglie di nuovi giri di vite sulle intercettazioni e impegno a riformulare i reati contro la pubblica amministrazione, si delinea una “riforma” che ha tutta l’aria di essere l’inizio di un percorso verso una sorta di rinuncia alla giustizia.

Senonché in una società complessa come la nostra, non si può fare a meno di un sistema di regole e di giudici indipendenti che ne garantiscano l’attuazione e il rispetto. Ora, è vero che il nostro sistema giudiziario spesso non funziona o funziona male, negli angoli in ombra ancor più che nelle zone sotto i riflettori. Eppure anche quel poco dà fastidio.

Molti che sbraitano per avere una giustizia efficiente, in realtà sono tifosi scatenati di una “inefficienza efficiente”: nel senso di funzionale alla tutela degli interessi loro e della cordata cui sono legati.  E se volano solo gli stracci (i “meno uguali”), vorrà dire che sarà confermato ancora una volta il proverbio siciliano «Giustizia stava scritto su u’ portone e ci credette u’ minchione» (che ha campeggiato per anni nella Casa penale di Favignana e che si ritrova in gran parte dei dialetti del Paese, nonché nei racconti di  Calvino o nelle canzoni di  de André).

C’è poi un risvolto di  questa  situazione, sintetizzabile nel detto: “Attento  a come ti muovi!”. Perché quando un uomo politico o comunque che può e conta viene indagato, la regola sembra diventata l’accusa – per il magistrato che procede – di fare politica: accusa, manco a dirlo, a senso unico, rivolta a chi indaga (ed eventualmente a chi condanna), mentre chi si defila o assolve viene gratificato (a prescindere dalla fondatezza o meno della decisione) degli applausi riservati al “giudice giusto”.

Tutto ciò si è intrecciato con l’accantonamento della questione morale, che non è una pruderie di benpensanti ma una grande questione democratica e istituzionale. Perché riguarda la trasformazione della politica in lobby d’affari, la contaminazione fra apparati dei partiti e mondo affaristico-economico. Ne sono figli il clientelismo e varie forme di illegalità, fino alla corruzione e alle collusioni con la mafia.

La questione morale fu il terreno su cui Berlinguer volle combattere la più popolare delle sue battaglie, interrotta da morte improvvisa, e tuttavia decisiva per la preparazione di quella stagione di Mani pulite e delle inchieste sui rapporti fra mafia e politica che segnò – per il nostro Paese – un forte recupero di legalità.

Per un po’ di tempo sembrò che potesse prevalere un’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. Poi invece ebbero il sopravvento l’indifferenza o l’ostilità verso chi dall’interno dello Stato cerca di garantire la legalità. Di qui gli attacchi sulla pretesa politicizzazione della magistratura e sul cosiddetto giustizialismo.

Col risultato che il recupero di legalità in atto agli inizi degli anni Novanta è stato costretto a percorrere strade sempre più impervie. E la questione morale, che l’estendersi del  controllo di legalità stava rilanciando, è stata accantonata in soffitta.

È importante rilevare che l’accantonamento (non a caso accompagnato dalla richiesta alla giurisdizione di fare un “passo indietro”) sta sempre più diventando rimozione: le dimissioni da incarichi pubblici a seguito di sottoposizione a processo penale, a differenza di quanto accade nella maggior parte dei sistemi simili al nostro, sono cadute in desuetudine e nei più recenti programmi, non solo della maggioranza ma anche dell’opposizione, è per lo più scomparsa persino l’imbarazzante evocazione di una questione posta dal rapporto tra etica e politica.

Il  vecchio rilievo machiavellico secondo cui gli Stati non si governano con i pater noster fa evidentemente premio sul pensiero dei nostri “maggiori” – da Bobbio in poi – secondo i quali la corruzione è priva di giustificazioni politiche e, come il tiranno resta tiranno, così il corrotto resta corrotto, a prescindere dai suoi successi.

Fonte: La Stampa, 11/01/2024

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