Ricca malasanità. L’odissea di un lombardo costretto a emigrare (nel privato) per una tac
Noi e la sanità. E diciamolo, dunque: “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza? Così inveì Cicerone nella prima delle sue celebri “catilinarie”, il giorno in cui il suo avversario aveva ordinato ai propri sicari di ucciderlo.
Non diversamente dovremmo rivolgerci ai pubblici poteri di questo Paese, che vent’anni fa decisero di trasformare la salute degli italiani in uno dei più grandi e impuniti campi di profitto, essendo gli altri ormai saturi o inarrivabili al genio imprenditoriale italico.
Così una convenzione dopo l’altra, un’esternalizzazione dopo l’altra, un soffio di ‘ndrangheta dopo l’altro, il sistema sanitario che fu nostro vanto, come l’amministrazione pubblica in Francia o l’assistenza sociale in Svezia, sta diventando un gigantesco fattore di ingiustizia sociale in un Paese sempre più vecchio e bisognoso.
Dopo gli eroismi dell’anno del Covid, sono caduti i veli. Lo ha registrato il monitoraggio di Nando Pagnoncelli sulle vere urgenze degli italiani, lo ha ricordato il Presidente della Repubblica nel suo messaggio di Capodanno. Fino a quando continuerà? Fino a quando sarà possibile? Certo le regioni non sono tutte uguali. In alcune, con esempi clamorosi al Sud, il dramma della malasanità è stato quasi sempre endemico.
Epperò sentite questa. Proprio in queste settimane ho potuto seguire per interposta (e disperata) persona la vicenda di un cittadino lombardo. Ossia di un abitante della regione più ricca d’Italia e che stabilmente reclama da decenni l’assoluta “eccellenza” della propria medicina. Un sistema sanitario competitivo, dove privato e pubblico concorrono tra loro, con effetti virtuosi sulla qualità dell’offerta.
Questo cittadino, residente nella provincia mantovana, dovendo affrontare con urgenza un’operazione per tumore e dovendo per questo preventivamente presentare una tac a chi avrebbe dovuto operarlo, si è sentito respingere la richiesta dal sistema pubblico, e prima (semmai possa essere una ragione) del periodo natalizio. Perché nemmeno in questi casi urgenti ci sono finestre disponibili per mesi.
Il signore in questione ha allora sfoderato la santa pazienza di questi momenti (“quousque tandem?”, appunto) e ha cercato di effettuare la tac nel privato. Ma neanche questa disponibilità a pagare in proprio è bastata. Niente da fare da nessuna parte, almeno nei territori in cui, a buon senso, poteva rivolgersi. Allora è passato a un’altra regione anch’essa zeppa di eccellenze, l’Emilia. Ma neanche lì il pubblico aveva finestre aperte. E neppure il privato, almeno nelle province limitrofe. Finché un posto (privato) è miracolosamente spuntato nella provincia di Ferrara.
Morale: un cittadino lombardo per curarsi in una situazione di estrema urgenza ha dovuto rivolgersi al sistema (privato) di un’altra regione. È dovuto emigrare. Sottolineo: è dovuto emigrare.
Una volta era il contrario, in Lombardia ci si andava a curare. Un caso accidentale? No. Mesi fa un medico marchigiano mi ha raccontato che da un po’ di tempo nella clinica per cui lavora arrivano d’estate a farsi visitare cittadini lombardi. La ragione? Nelle Marche il posto nel privato si trova prima, e in più gli interventi (sempre nel privato) costano molto meno.
La scelta estiva? È dovuta alla possibilità di ammortizzare le spese di trasferta e permanenza abbinando il viaggio a una vacanza. Turismo sanitario, appunto.
Così si consumano, non tutte d’un tratto, ma un gradino dietro l’altro, le celebri eccellenze. Dietro ci sono i drammi veri di malati che non si possono curare, costretti a svenarsi, o perfino a indebitarsi. E quelli di famiglie in cui i malati sono più di uno.
Perché il parlamento invece di promuovere una indagine-rappresaglia sulla sanità ai tempi del Covid, non ne promuove una vera al servizio della collettività sullo stato odierno della sanità in Italia? Ah, saperlo…
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 08/01/2024
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