Felicia, il dolore come strumento di impegno
Dopo all’assassinio della giovane Giulia Cecchettin, perpetrato dall’ex fidanzato ed alle successive prese di posizione pubbliche della sorella e del padre della vittima di questo terribile femminicidio che ha provocato in tutto il Paese una forte reazione, scaturita in manifestazioni di piazza e cortei, si è dibattuto sul modo in cui le vittime di violenza dovrebbero esprimere il proprio dolore.
Sono di questi ultimi giorni le polemiche create dalla partecipazione di Gino Cecchettin alla trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio e adesso la bufera provocata dalla copertina che L’Espresso ha dedicato ad Elena Cecchettin in quanto “persona dell’anno”, per essersi esposta contro la cultura violenta del patriarcato. In molti si sono domandati se sia più giusto scegliere il silenzio o parlare pubblicamente e prendere una posizione.
Riteniamo intanto che non ci sia un modello valido per tutti. Il dolore per la perdita di una persona cara è qualcosa di così tanto intimo e personale che giudicare chi lo vive ci sembra un atto scorretto in partenza ed a volte pretestuoso.
Nella storia di Peppino Impastato abbiamo un esempio da offrire, quello di sua madre Felicia, senza giudizi affrettati su chi ha agito diversamente e senza la pretesa di imporre nulla a nessuno.
Felicia Impastato dinanzi all’immenso dolore causatole dall’omicidio mafioso del figlio, ha compiuto una scelta importante, forse in un primo momento istintiva e non totalmente consapevole, poi divenuta uno dei suoi principali motivi per andare avanti e vivere. Felicia ha deciso, fin da subito, di trasformare il proprio dolore in un messaggio politico e collettivo, un messaggio di lotta e di emancipazione. Il suo obiettivo era quello di riscattare suo figlio, di non rendere vana quella terribile morte, di impegnarsi per la verità e la giustizia, e per farlo ha dato vita ad un impegno quotidiano. Così facendo ha fatto un dono alla collettività. Si è resa protagonista di una battaglia di cambiamento culturale e lo ha fatto in tutta la sua interezza, con la sua voce ed il suo corpo.
Felicia dopo quattro giorni dall’assassinio del figlio esce da casa e si fa accompagnare a scuola per andare a votare alle elezioni comunali, scandalizza il proprio paese; era una donna vedova di un mafioso in un paese siciliano e parliamo di più di 45 anni fa. Voleva dare il suo voto al figlio morto ammazzato che si era candidato a quelle elezioni. Con questo atto, oltre ad aver rotto la tradizione del lutto, ha dato un grande segnale di democrazia. Successivamente ha cacciato di casa i parenti mafiosi del marito che le proponevano la strada della vendetta, tipica di una mentalità mafiosa, ed ha scelto la Giustizia.
Felicia ha denunciato i mafiosi, ha parlato con i Giudici impegnandosi in un lungo processo arrivando a vedere la condanna di Gaetano Badalamenti, mandante dell’omicidio di suo figlio. Felicia si è fatta subito intervistare, il primo giornalista ad incontrarla è stato Mario Francese, ma non si è fermata lì, ha continuato a parlare e a raccontare, arrivando addirittura ad aprire la propria casa al pubblico facendola diventare un altare laico di pellegrinaggio, come lo ha definito Umberto Santino.
Felicia ha dovuto ingoiare, giorno dopo giorno, le proprie lacrime, ed andare avanti, per Peppino, per Giovanni, per i suoi nipoti e per trovare la forza di parlare e dare una speranza a tanti giovani che andavano a incontrarla. Oggi, dopo quarantacinque anni il suo messaggio di lotta alla mafia, di democrazia, di libertà continua ad arrivare a migliaia di persone, grazie a chi ha deciso di prendere il testimone di questa battaglia, in particolare il figlio Giovanni, la nipote Luisa, i compagni di Peppino, il Centro Impastato e gli attivisti che continuano a tenere aperta la casa di Felicia.
Ci sentiamo vicini alla famiglia di Giulia e alla loro scelta di rendere pubblico il proprio dolore e farne un messaggio di lotta contro la violenza di genere. Non è una scelta facile, vivranno tante contraddizioni, sconfitte e vittorie, critiche e percorsi a volte in salita e un grande dolore che mai li lascerà, ma che indirizzerà le loro scelte presenti e future. Non si può che dare la nostra solidarietà e ringraziarli per aver cercato di reagire a proprio modo, scegliendo di lottare per la figlia/sorella e per tutte le altre vittime della violenza patriarcale e maschilista.
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