Le parole sono importanti. Dalla psichiatria al greco: il femminicidio non è un “raptus”
Raptus, raptus. Questa parola non mi è nuova, avrebbe detto Totò. E in effetti sul mio cammino l’ho incontrata migliaia di volte. Quasi sempre nelle cronache giudiziarie.
Spiega il dizionario che in psichiatria significa “l’atto improvviso e violento col quale il malato si volge contro sé stesso o contro un’altra persona”. Aggiunge che per i letterati indica “il rapimento nel culmine dell’ispirazione poetica o nell’ascesi mistica”. Mentre nel linguaggio comune designa (spesso scherzosamente, si precisa) un “impulso incoercibile, che condiziona il comportamento”.
Vi è comunque accordo sul fatto che il termine si radichi nel latino classico, in cui significa “rapimento”. Potrà dunque anche avere, la parola, una valenza mistico-poetica, ma ha più profondamente un contenuto di violenza.
Specialmente verso la donna, principale oggetto dei rapimenti della storia o della mitologia. Per amore ricambiato, come quello di Elena, che però “infiniti addusse lutti agli achei”. Ma soprattutto per punizione, vendetta, bramosia, spirito di possesso o di conquista, come quello di Plutone per Proserpina.
In tal senso la prima manifestazione che ne incontriamo tra i banchi di scuola è quella del ratto delle Sabine. È la leggenda più antica di Roma, sulla quale si applicarono Plutarco e Tito Livio. I romani che attirano i sabini in un tranello, invitandoli alla festa del dio Conso e che a un segnale di Romolo si prendono per sé le ospiti più giovani, allo scopo di popolare la propria città, giovane anch’essa. Con la guerra tra le due parti scongiurata proprio dalla interposizione delle donne.
Chissà come andò veramente. Fatto sta che è meravigliosamente simbolico che il rapimento più famoso della storia italica sia stato compiuto per impossessarsi di donne e farne strumento di disegni di potere.
A pensarci, solo i miracoli della storia e della lingua possono oggi portare a usare puntualmente il termine raptus per descrivere i meccanismi mentali attraverso cui un uomo, sedicenne o settantenne che sia, decide di esercitare la violenza verso una donna per assoggettarla a sé, o per punirla di non averglielo permesso.
Perché in effetti il “ratto” non c’è più. Ma è solo apparenza. Nel senso che non ci si porta via la persona (la donna) ambita. Ma le si porta via la vita, come sanzione per la sua ribellione.
Ecco dunque il rapimento, il “raptus” su cui si dovrebbero affannare giudici e avvocati, psichiatri e psicanalisti quando bisogna spiegare un femminicidio. Del tutto privo di qualsiasi potenziale giustificativo. Progetto violento, non “attenuante”. Progetto che nasce non da perdita della ragione ma da calcolo, pur se talora istintivo, dei rapporti di potere tra l’assassino e la vittima. Stabiliti (dentro di sé) dal carnefice comparando la forza propria e quella altrui. Il che esclude in radice l’accezione del raptus come “improvvisa perdita di senno”.
Ad agire infatti (salvi i terroristi) sono persone consapevoli della differenza di potere fisico di cui godono rispetto alla propria vittima. Sparo con un fucile da una finestra sulla folla inerme. Stermino gli alunni innocenti di una scuola per rivalermi di presunti torti passati. Uso la mazza da baseball, il coltello da cucina, i pugni e i calci, il crick dell’auto, la morsa delle mani, la pistola contro chi non può difendersi o è comunque destinato a soccombere.
Mai si è visto un mingherlino alto 1.60 andare per improvviso raptus all’assalto a mani nude di un gigante armato di tirapugni. Mai visto (salvi i terroristi per fede religiosa o politica) uno squilibrato col pugnale andare all’assalto di un plotone di soldati o di poliziotti armati.
Sarebbe ora di restituire alla logica un primato sulle (pur nobili) traslazioni linguistiche.
E di stabilire con lucidità, e non subendo la forza di gravità delle consuetudini, se l’individuo finito davanti ai giudici è stato vittima di un raptus o ne ha commesso uno. Il peggiore.
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 11/12/2023
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