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Giustizia. Passione civile e imparzialità possono coesistere

Gian Carlo Caselli il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

I magistrati che hanno «osato» contraddire il Governo non applicando il decreto Cutro, perché in contrasto con le normative europee, hanno turbato anzi «basito» la nostra premier e scatenato un vespaio di polemiche.

Tutto è cominciato con il provvedimento della giudice Iolanda Apostolico di Catania, che fior di costituzionalisti han giudicato ineccepibile. Il ministro Nordio ha fatto ricorso e ciò rientra nelle sue prerogative. Ma al collega Salvini non basta, e dando prova di una personalissima concezione dello stato di diritto ha riesumato (non si sa come né grazie a chi, tanto che, in attesa di chiarimenti, c’è chi sente puzza di “dossieraggio”) un filmato di ben cinque – cinque! – anni fa in cui compare anche la Apostolico, che non dice una parola né fa un qualche  gesto, ma ha il torto di assistere a una manifestazione di protesta contro  il divieto di Salvini di far sbarcare alcuni  profughi dalla motonave «Diciotti».

L’annosa polemica fra politica e magistratura con cui la prima vuole addomesticare la seconda è quindi ad una svolta grave, che merita un approfondimento. A scanso di equivoci, si tratta di considerazioni in parte già contenute  nel libro «A un cittadino che non crede nella giustizia»,  che ho scritto con Livio Pepino per Laterza nel 2005.

Dietro al dogma della apoliticità

Il dogma della apoliticità di giudici e giurisdizione dominò a lungo nel nostro paese. Al riparo di tale dogma, il Procuratore generale della Cassazione definiva gli infortuni sul lavoro «una fatalità», gran parte della magistratura siciliana era attestata sulla tesi che «la mafia non esiste», la Procura della Repubblica di Roma era allegramente (e non per caso) chiamata «porto delle nebbie», i vertici della magistratura partecipavano a cerimonie in cui imprenditori inquisiti e politici corrotti venivano insigniti delle massime onorificenze della Repubblica e poteva anche accadere che un Procuratore generale non disdegnasse di rilasciare affidavit per il suo amico Sindona.

Non fu tutto così e gran parte dei giudici e dei pubblici ministeri mantenne indipendenza e imparzialità, ma in termini di immagine e di linee di tendenza questa impropria politicizzazione, mascherata col dogma della apoliticità, condizionò profondamente la magistratura fino agli anni Sessanta, rendendola – per usare parole di Luigi Ferrajoli – «un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un “corpo separato” dello Stato, come allora si diceva, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili».

La favola del bel tempo antico

E non è tutto. Si legge infatti  nel programma della loggia segreta P2 – sciolta per legge nel gennaio 1982, ma trampolino di lancio per molti protagonisti della successiva stagione politica e istituzionale – che «per la Magistratura esiste già una forza interna (la corrente di Magistratura indipendente dell’Associazione nazionale magistrati) che raggruppa oltre il 40% dei magistrati italiani su posizioni moderate. È sufficiente stabilire un raccordo sul piano morale e programmatico ed elaborare una intesa diretta a concreti aiuti materiali per poter contare su un prezioso strumento già operativo all’interno del corpo (…)».

E attenzione; non era un mero progetto, tant’è vero che, proprio per l’adesione alla P2 e per avere, tramite il suo maestro venerabile, ricevuto finanziamenti, è stato radiato dall’ordine giudiziario, con sentenza 9 febbraio 1983 del Consiglio superiore, Domenico Pone, che di Magistratura indipendente era, all’epoca dei fatti, segretario generale.

La vulgata, diffusa anche all’interno della magistratura, di un bel tempo antico in cui i magistrati erano apolitici e la giurisdizione serena ed equilibrata, è dunque una favola utile solo a occultare e legittimare ex post (magari nella prospettiva di una riedizione) una stagione di politicità massiccia, a senso unico e incompatibile con un indipendente esercizio della giurisdizione.

La realtà è ben diversa: oggi – non è cosa da poco – comportamenti come quelli descritti sarebbero inaccettabili per gran parte della società, tanto che i persistenti impropri collegamenti di alcuni magistrati con centri di potere (magari per mediocri interessi o vantaggi personali) vengono non più esibiti, ma occultati.

In che consiste, dunque, il cambiamento intervenuto? Non già, come da più parti  – anche oggi con il governo Meloni – si dice (o si fa intendere attraverso l’uso martellante di espressioni come «toghe rosse»), in un generale spostamento a sinistra degli umori e degli orientamenti di giudici e pubblici ministeri, bensì nel tentativo della magistratura (o, almeno, della sua gran parte) di affrancarsi da una politicizzazione deteriore e di portare a termine la lunga marcia verso una reale indipendenza, sostitutiva della tradizionale falsa neutralità.

Dalla falsa neutralità alla vera indipendenza

La strada è tracciata dalla Costituzione, in particolare dall’articolo 101 che vuole i giudici «soggetti soltanto alla legge». Questa soggezione esclusiva è la grande novità del disegno costituzionale. Essa, infatti, esclude ogni altra dipendenza, diretta o indiretta, e comanda – come è stato scritto – «la disobbedienza a ciò che legge non è: al palazzo e ai suoi esponenti, alle contingenti maggioranze, ai potentati economici o culturali e via seguitando».

Se si vuole chiamare «politicizzazione» il perseguimento di questo percorso, lo si può anche fare: l’importante è sapere a che cosa ci si riferisce…

Discorsi astratti, dicono alcuni critici non banali; perché, ferita e indebolita l’antica politicizzazione, se ne è costruita un’altra, speculare e di colore opposto. E – proseguono – a nulla vale evocare gli errori e le forzature del passato, perché gli sbagli commessi non bastano a legittimarne la reiterazione. A sostegno di questo assunto si citano sentenze abnormi in quanto «fughe in avanti», impropri prestiti di giudici e pubblici ministeri alla politica o all’amministrazione, sconvenienti abitudini di magistrati a partecipare a manifestazioni pubbliche o scrivere su riviste o quotidiani con connotazioni di parte etc.

Quanto alle sentenze valgono ancora oggi le parole con cui Norberto Bobbio, già nel 1971, ammoniva che i problemi della giurisdizione non sono mai stati e non sono presunte fughe in avanti e che a inquietare è, piuttosto, la circostanza, dimostrata da interi repertori di giurisprudenza, che spesso «la preoccupazione principale di coloro che sono preposti alla tutela giuridica è il mantenimento dell’ordine»; per cui «l’ideologia della magistratura diventa l’ideologia dell’ordine, o, ancor più propriamente, l’ideologia della pubblica sicurezza», con grave rischio per «la libertà o, più precisamente, le singole libertà la cui garanzia è l’essenza dello Stato di diritto».

Quanto ai prestiti alla politica, non basta richiamare la circolare del giugno 1944 con cui il primo guardasigilli dell’Italia liberata (Arangio Ruiz) rimosse il divieto per i magistrati di partecipare alla vita politica (definita «un dovere civico» per tutti) osservando che «se moventi diversi da quello del compimento del dovere potessero influire sulle pronunzie dei magistrati italiani, non basterebbe impedire loro l’iscrizione ai partiti perché, dentro o fuori di questi, il giudice non potrebbe non avere le sue opinioni e relazioni, tanto più efficaci quanto più nascoste».

La cosa grave nel prestito di magistrati alla politica  è che a  destar scandalo non sono – non devono essere – i magistrati che vanno in Parlamento, ma quelli che ci vanno per rendere servizi. E per distinguerli a volte basta leggere i giornali…

Quelli che «la moglie di Cesare»…

C’è però chi afferma, senza lasciarsi sfiorare da dubbi, che la partecipazione del magistrato alla vita politico-culturale lo rende sospetto a chi non ne condivide le idee.

L’affermazione (che non manca mai di citare la «moglie di Cesare») se a qualcuno può sembrare suggestiva è in realtà deformante: l’estraneità del magistrato dalla società è, anzitutto, impossibile. Basti un esempio.

Ci sono giudici credenti e altri che non lo sono e tale condizione non è occultabile. Dovrà, dunque, l’ateo rifiutare il giudizio del credente e quest’ultimo diffidare del giudizio dell’ateo? O non dovranno entrambi verificare l’imparzialità del proprio giudice in base alle sue opzioni interpretative e al rigore delle sue motivazioni? E se ciò accade per le convinzioni più profonde, perché mai lo stesso approccio non dovrebbe valere per le opzioni ideali, culturali, politiche?

Il fatto è che non sono le idee né la loro espressione, ma casomai le «appartenenze», in particolare se occulte, a ridurre l’imparzialità del magistrato e che spesso sono proprio l’apoliticità e l’indifferenza a offrire copertura e a mimetizzare fenomeni di subordinazione o di strumentalizzazione del ruolo.

Passione civile e imparzialità nel giudizio non sono concetti antitetici o incompatibili. L’imparzialità è disinteresse personale, distacco dalle parti, non anche indifferenza alle idee e ai valori (che sarebbe assai pericolosa in chi deve giudicare). Nuocciono ad essa la partecipazione alla gestione del potere, i legami affaristici, il coinvolgimento in conflitti personali e di gruppo; non anche la partecipazione al dibattito e al confronto culturale.

Il buon magistrato non persegue e non giudica idee e neppure «amici» o «avversari», ma solo persone chiamate a rispondere di fatti specifici, e lo fa indipendentemente dalle idee, dalle caratteristiche personali, dalle convinzioni, dal colore della pelle del destinatario del giudizio.

* Fonte: Rocca n°21 – 1 novembre 2023

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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