Chiesa e mafia
“Gli stretti rapporti fra chiesa cattolica e mafia non sono un’invenzione della stampa: da sempre le mafie hanno fatto uso di una simbologia e di una ritualità presa in prestito dalla religione cattolica, da sempre molti uomini di chiesa hanno mostrato compiacenza verso i mafiosi”. È la tesi con cui la sociologa palermitana Alessandra Dino – autrice, fra l’altro, della Mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra (Laterza) – ha aperto il convegno organizzato ieri a Roma, due giorni dopo l’anniversario dell’omicidio di don Puglisi che il Vaticano non vuole dichiarare martire, da una serie di realtà cattoliche di base (fra cui Comunità di base di San Paolo, Noi Siamo Chiesa, Cipax e Liberamentenoi) con un titolo emblematico: Sotto le due Cupole. Ovvero la cupola di Cosa Nostra e la cupola di San Pietro.
“I mafiosi si dicono cattolici sia per il bisogno, comune a molti, di credere in qualcosa, come hanno raccontato diversi pentiti, sia perché alla mafia serve la chiesa: per ragioni di appartenenza, identità e coesione interna e per ragioni di consenso sociale. Il boss che guida la processione di sant’Agata a Catania – ha spiegato Dino – è un segnale molto forte agli occhi della gente: c’è la benedizione della chiesa, quindi un riconoscimento pubblico.” E la chiesa? “Nel passato c’è stata accettazione e compiacenza, anche da parte dei vertici ecclesiastici, come il card. Ruffini, per cui la mafia era comunque meglio del comunismo”, o come “il card. Pappalardo che, dopo una prima stagione antimafia, scelse il silenzio e lasciò solo persino don Pugliesi”, ha aggiunto Giovanni Avena, direttore editoriale dell’agenzia Adista. Oggi c’è maggiore consapevolezza da parte della chiesa, ma non ancora piena: il documento della Cei sul Mezzogiorno dello scorso febbraio afferma che la mafia è struttura di peccato e inconciliabile con la fede, ma si sofferma solo sulla mafia che spara e tace su due aspetti: i rapporti fra mafia, politica e imprenditoria e la scomunica ai mafiosi”, ha proseguito Dino.
La questione, però, secondo il teologo Augusto Cavadi – autore, fra l’altro, del Dio dei mafiosi (San Paolo) – più che la scomunica è la teologia cattolica: “Non si tratta tanto di scomunicare i mafiosi, ovvero di cacciarli fuori, quanto di elaborare una teologia davvero evangelica a cui i mafiosi siano allergici”, ha detto Cavadi. “Da una chiesa povera e fraterna, i mafiosi, che perseguono potere e denaro, si autoescluderebbero da soli e anzi la considererebbero nemica. Invece in questa chiesa potente, gerarchica, verticistica, omofoba e ritualistica i mafiosi si trovano bene, perché vi trovano molte analogie con i codici e la teologia mafiosa”. Dura l’autocritica di don Luigi Ciotti, presidente di Libera: “A fronte dell’impegno di pochi vescovi, diversi preti e gruppi cattolici di base, ci sono ancora troppe ambiguità e compiacenze da parte di molti uomini di chiesa nei confronti della mafia. Per questo mi auguro che Benedetto XVI, che il 3 ottobre sarà a Palermo, dica parole forti e chiare sull’incompatibilità fra mafia e Vangelo. La Chiesa deve avere il coraggio della denuncia, deve sporcarsi le mani per la giustizia,come hanno fatto don Puglisi e don Peppe Diana. Ma io vedo ancora troppi silenzi e troppe ambiguità, e silenzi e ambiguità non hanno giustificazioni”.
E ha concluso citando Peppino Impastato: “Se la Chiesa si fosse impegnata nella denuncia delle mafie come si è impegnata sul tema della sessualità, probabilmente la mafia non avrebbe il consenso sociale di cui gode oggi”
* Il Manifesto – 18 settembre 2010
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