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Palermo ricorda Puglisi

Di Luca Kocci* il . Sicilia

«Padre, questa è una rapina», gli dice Gaspare Spatuzza. Subito dopo Salvatore Grigoli gli spara un colpo, un solo colpo di pistola alla nuca, da pochi centimetri. Viene ucciso così don Pino Puglisi, parroco a Brancaccio, a Palermo, 17 anni fa, la sera del 15 settembre 1993. Ucciso per il suo impegno antimafia poco appariscente ma concreto. Non era un “professionista dell’antimafia”, non compariva in tv ma tutti i giorni lavorava per rendere vivibile un quartiere ostaggio della mafia, per educare le persone a non sottomettersi e a rivendicare i propri diritti. «Cercava di levare i ragazzini dalle mani dei criminali per non farli diventare mafiosi, faceva manifestazioni, tutto questo dentro quel quartiere che era un regno dei Graviano», dirà al processo il pentito Antonio Calvaruso.

Era diverso padre Puglisi dagli altri parrini, espressione paradigmatica che fonde in un’unica parola prete e padrino, perché «un prete che si fa i fatti suoi campa cent’anni – aggiunge un altro pentito, Salvatore Cancemi – Questo qua invece disturbava Cosa Nostra». Anomalo, quindi, rappresentante di una chiesa altra, non sottomessa né collusa, che andava ricondotto all’ordine, oppure tolto di mezzo.  Nato il 15 settembre 1937 proprio a Brancaccio, Puglisi segue il percorso tradizionale di un giovane che vuole diventare prete: le scuole, i gruppi ecclesiali, il seminario, fino all’ordinazione sacerdotale nel 1960, per le mani del cardinal Ernesto Ruffini, quello che sosteneva che la mafia era un’invenzione dei comunisti. Quindi i primi incarichi in parrocchia a Palermo, poi, dal 1970, a Godrano, paese di montagna dilaniato da una faida familiare risalente ad inizio ‘900. Nel 1978 il ritorno a Palermo e l’avvio di quella che sembra essere una brillante carriera ecclesiastica: direttore del Centro diocesano vocazioni e, a Roma, consigliere del Centro nazionale vocazioni della Cei. 

Nel 1990 la svolta: il cardinale Pappalardo, arcivescovo di Palermo, lo nomina parroco di San Gaetano, a Brancaccio, e Brancaccio, in un certo senso, lo convertirà.  Un po’ come accadde a Oscar Romero: vescovo moderato inviato a San Salvador negli anni della dittatura militare, si immerge nella realtà sociale in cui vive, incarnandosi nelle situazioni e nelle lotte del suo popolo, fino al martirio, per mano degli squadroni della morte dei generali. E così sarà per don Puglisi: un prete tranquillo, inviato a Brancaccio anche per normalizzare una parrocchia considerata di sinistra, si tuffa in una realtà sociale di povertà e sottomissione al dominio mafioso, lotta tutti i giorni per modificarla, finendo ammazzato. Quartiere «ad alta densità mafiosa», recitano le formule sociologiche, protagonista della guerra di mafia dei primi anni ’80, dominio incontrastato dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Don Puglisi accetta l’incarico, perché è un prete obbediente e perché si tratta di un ritorno a casa. Brancaccio «è una terra di nessuno, i bambini vivono in strada e dalla strada imparano solo le lezioni della delinquenza», lo descrive lo stesso Puglisi.

C’è povertà materiale e culturale: «L’evasione scolastica è dovuta al fatto che Brancaccio è l’unico quartiere di Palermo in cui non esiste una scuola media perché questo fa comodo a chi vuole che l’ignoranza continui. Come strutture civili abbiamo solo la delegazione di quartiere. In sostanza si fa prima a dire quello che c’è: tutto il resto manca», nota ancora.  Puglisi comincia dai bambini: li trova in mezzo alla strada e li porta in parrocchia, non per catechizzarli ma per farli giocare, educandoli al rispetto delle regole. Poi gli adulti e il resto del quartiere. Inizia la collaborazione con il Comitato intercondominiale di via Hazon, dove in alcuni palazzoni il Comune ha stipato centinaia di sfrattati. Con il Comitato, porta avanti la battaglia per la costruzione delle fogne, di un presidio socio-sanitario, della scuola media. E contemporaneamente rompe i legami fra la parrocchia e i mafiosi: vieta al Comitato feste di passare per la case a riscuotere i soldi – quasi un pizzo – e stravolge la festa del patrono, diventata una vetrina per gli uomini d’onore che portando la statua o guidando la processione legittimano simbolicamente il loro ruolo di capi, con la benedizione della chiesa; respinge le offerte dei boss e gli aiuti dei democristiani; dice no ai mafiosi che vogliono fare i padrini di battesimo e di cresima. 

Arrivano tre suore e un viceparroco per dargli una mano, nasce il Centro Padre Nostro: spazio socio-culturale, centro di assistenza per i più poveri, luogo dove si impara a conoscere e a rivendicare i propri diritti, spezzando i meccanismi di sottomissione e di clientelismo che da sempre regolano la vita a Brancaccio. Si moltiplicano gli scontri con i notabili democristiani: Puglisi rispedisce al mittente i “santini” che vengono portati in parrocchia ad ogni tornata elettorale, attacca gli uomini della Dc quando si presentano a raccattare voti, in un’assemblea pubblica invita i cittadini di Brancaccio a «non chiedere come favore ciò che è vostro diritto ottenere». 

Ha passato il segno ed inizia ad essere osservato più da vicino dai Graviano. Nel 1993 la situazione precipita. Il 21 maggio la parrocchia organizza una fiaccolata per ricordare la strage di Capaci e il giorno dopo, puntuale, arriva la prima forte intimidazione: viene incendiato il camion della ditta che stava effettuando dei lavori di ristrutturazione in parrocchia. A giugno Puglisi e il Comitato intercondominiale portano una troupe del Tg3 a filmare il degrado e l’illegalità di via Hazon, e pochi giorni dopo, nella stessa notte, vengono incendiate le porte delle abitazioni dei tre leader del Comitato. La domenica successiva, dal pulpito, durante l’omelia Puglisi attacca frontalmente i mafiosi: «Non siete uomini, ma animali». A luglio manifestazione antimafia in piazza per ricordare la strage di via D’Amelio, e la sera stessa un giovane animatore della parrocchia viene aggredito. Anche il cardinale scarica il prete che inizia a sentirsi solo e a temere per sé e per i propri collaboratori, a cui chiede una maggiore prudenza. Ma il prossimo obiettivo ormai è lui, don Puglisi, che viene ucciso nel giorno del suo compleanno. 

I processi – in cui la Curia di Palermo non si costituisce parte civile – condannano mandanti (i fratelli Graviano all’ergastolo) ed esecutor materiali. La chiesa, invece, è tiepida: parla di don Puglisi, ma il processo di beatificazione è fermo al palo e soprattutto il Vaticano non intende riconoscere al prete ammazzato dalla mafia il titolo di “martire”. Troppo eversivo affermare che chi si oppone alla mafia fino alla morte è un martire: che figura farebbe tutta quella parte di chiesa che non solo non si oppone ma convive tranquillamente con mafia, camorra e ‘ndrangheta?  «La figura tipica del prete meridionale è di un onesto burocrate del sacro: amministra i sacramenti, insegna un po’ di catechismo ai bambini, soccorre qualche famiglia in difficoltà. Per il resto, meno interrogativi si pone, e pone, ai parrocchiani, e più viene apprezzato», spiega Augusto Cavadi, teologo palermitano, autore del Dio dei mafiosi (Edizioni San Paolo). «In questo scenario, i mafiosi possono accettare che un prete organizzi marce e fiaccolate in difesa della legalità democratica? Che chieda alle autorità di far sgombrare locali abusivamente adibiti a deposito di sigarette di contrabbando e di droghe illegali? Che critichi gli amministratori esperti in pratiche clientelari quanto incapaci di attivare spazi sociali istituzionali? Che vada a visitare familiari di mafiosi per problematizzare la compatibilità di certi criteri etici con i dettami evangelici? Evidentemente no. Un prete va bene solo nella misura in cui non insiste sul messaggio di Gesù: la dignità di ogni uomo e di ogni donna. Può essere lasciato in pace se, a sua volta, lascia in pace padroni e padrini: se, c
ome diceva monsignor Helder Camara, aiuta i poveri ma evita di chiedersi perché questo sistema socio-economico produca poveri. Allora si possono capire le resistenze sinora opposte da ambienti vaticani alla canonizzazione di don Puglisi: additarlo alla venerazione dei fedeli significherebbe ammettere che, per un prete, l’impegno per la libertà e la giustizia nel territorio costituisca non un optional, se non deviazione, rispetto alla sua missione, bensì un elemento costitutivo, irrinunciabile».

 Papa Ratzinger andrà a Palermo, il prossimo 3 ottobre, per incontrare famiglie e giovani, e un gruppo di associazioni ecclesiali di base palermitane gli ha scritto per chiedere che «venga solennemente riconosciuta dalla Chiesa, come martirio cristiano, la morte di don Puglisi, ucciso dalla mafia». Dare questo valore alla morte di un uomo «che non ha piegato la testa al potere mafioso« in nome del Vangelo sarebbe un segno di «svolta», affermano le associazioni. Ma, fino ad ora, dal Vaticano nessuna reazione: è una svolta che non piace.

* Il Manifesto

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