Su Paolo Borsellino, parole chiare
Per quel poco che ho conosciuto Paolo Borsellino, questa sera, mi sento di potervi dire che mai nel suo lavoro gli fece velo la ragion di Stato o la ragione politica, dal momento che voleva e volle combattere la mafia, senza se e senza ma, senza occhi di riguardo per nessuno, senza remore, a maggior ragione senza bollini di partito, che ne ostacolassero lo svolgimento.
Ma d’altra parte, fu questo il tratto che accomunò tutti i magistrati componenti di quel “pool” antimafia di Palermo che sarebbe diventato leggendario, ma purtroppo solo a cose fatte, dopo le stragi, quando ormai era tardi per correre ai ripari.
Giovanni Falcone e Antonino Caponnetto e Paolo Borsellino e gli altri componenti di quella squadra che finalmente, dopo oltre un secolo, aveva stabilito che con Cosa Nostra non si doveva più convivere né scendere a patti, provenivano – come era naturale che fosse -, da formazioni culturali, convinzioni religiose, simpatie politiche, differenti fra loro. E per loro, solo la lotta alla mafia doveva contare. In altre parole, tutto il resto non contava niente.
E potremo aggiungere, con elenco assai difettoso, i nomi di Cesare Terranova e Gaetano Costa e Rocco Chinnici e Piersanti Mattarella e Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa, e Boris Giuliano e Ninni Cassarà e Emanuele Basile e Mario D’Aleo.
Anche per loro, contava solo la lotta alla mafia.
Nient’altro.
Ecco perché furono tutti assassinati.
Sono trascorsi più di trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Trent’anni sono tanti, visto che non conosciamo sino in fondo la composizione di quel grumo nero che scatenò un’escalation di sangue che non aveva precedenti nella storia dei paesi dell’Occidente, e che, per fortuna, sino a oggi, è rimasta un unicum orrendo nei libri di storia.
Ma veniamo a oggi.
Non si capisce bene perché le evidenze che ho appena elencato, quasi banalità a spiegazione di quanto accadde, siano ancora ai tempi nostri oggetto di feroci polemiche, con contrapposizioni anche fra persone che dovrebbero avere in comune lo stesso interesse per la verità. Persino all’interno di famiglie delle vittime di mafia.
Come se la longa manus di quell’escalation fosse ancora all’opera per condizionare la valutazione dei posteri su ciò che accadde.
Diciamolo.
Cosa Nostra, in questo secolo e mezzo, non è stata né estranea né antitetica allo Stato.
L’infinito elenco delle stragi, da Portella della Ginestra sino a Capaci e via D’Amelio, ci racconta di grandi schieramenti criminali che si ritrovarono, in un tremendo patto col diavolo, per condizionare la storia italiana. E poca cosa sarebbe, e ingiustificata, e sproporzionata, a spiegazione di questa immensa scia di sangue, una diatriba fra magistrati o una baruffa fra imprenditori per questo o quell’appalto.
No.
Questo sarebbe un modo irrispettoso per rimpicciolire, alle dimensioni di un francobollo, le ragioni che portarono alla morte migliaia di persone.
Interessi colossali, grandissime potenze, a volte anche straniere, stanno dietro questi ottant’anni di vita repubblicana segnati dal terrore. Le cose andarono molto diversamente.
La strage di via D’Amelio entra a pieno titolo in questo scenario.
Non può essere estrapolata dall’insieme.
Non può finire da sola sotto la lente dell’accertamento della verità.
Ci comporteremmo da nani, di fronte ai giganti della criminalità.
Perché neanche gli storici, quando sarà, sapranno indicare con pietre miliari certe dove finì di morire Falcone e dove iniziò a morire Borsellino. E nessuno se ne abbia a male.
Questo lo dico, e mi sia consentito, in riferimento all’attuale commissione parlamentare d’inchiesta che sin qui ha dato l’impressione di volersi occupare monotematicamente dei 57 giorni che separarono le due stragi.
Alcuni giornali, e segnatamente quelli poveri di lettori ma ricchi di contributi statali, e alcuni esponenti politici, stanno sovraccaricando sulle spalle dei componenti della commissione, inclusa la sua presidente, aspettative da colpo di teatro.
Quasi che quelle verità, ancora non emerse da una dozzina di processi, dovessero passare, per affermarsi, dalla demolizione di quelle figure di magistrati che per anni e anni quelle verità, pur non avendole trovate, non hanno mai smesso di cercarle. Sarebbe un brutto gioco, un gioco sporco. Al quale l’Italia per bene non vorrà prestarsi.
Ci sono ancora inchieste aperte a Caltanissetta, Firenze e in altre Procure, dalle quali emergono piste corpose e nomi di protagonisti che chiamano in causa l’ eversione nera, gli apparati deviati dello Stato, le strutture militari clandestine, che tanto inorgoglivano l’ex capo dello Stato, Francesco Cossiga, per aver fatto il lavoro sporco anche nelle stragi di Roma, Milano e Firenze nel 1994.
La commissione presieduta da Chiara Colosimo non potrà volgere il capo dall’altra parte. Sarebbe troppo facile, e significherebbe tradire proprio quel peculiare spirito del “pool “antimafia al quale facevo riferimento all’inizio.
Vogliamo dirlo con parole chiare.
La commissione non dovrà rispondere a input di governo o, meno che mai, a suggerimenti di parte o di partito.
Non è ancora tempo di riscrivere la storia. E’ ancora il tempo di scriverla.
E per farlo, occorre riconoscere, e trarne le debite conseguenze, quei ricorrenti riferimenti a Gladio che Giovanni Falcone lasciò ripetutamente in quella parte, a oggi conosciuta, del suo diario.
E prendere atto che ci fu una trattativa fra Cosa Nostra e lo Stato durante la stagione delle stragi.
E che Paolo Borsellino, a quella trattativa, non si volle piegare.
In altre parole, non dovremo commettere l’errore di rimpicciolire alle dimensioni di un piccolo francobollo, anche le cause che portarono a morire Paolo Borsellino insieme a Emanuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Agostino Catalano. Grazie.
Fonte: AntimafiaDuemila, 26/10/2023
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