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L’Italia ha bisogno di verità

Di Norma Ferrara il . Calabria, Interviste e persone

Calabria estate del 2010. E’ il 25
agosto quando sotto l’abitazione
del procuratore generale di Reggio
Calabria, Salvatore Di Landro,
una bomba esplode, danneggiando il portone e
i vetri del palazzo. Nessun ferito per fortuna,
l’attentato è l’ennesimo atto di intimidazione
diretto verso un esponente della magistratura
reggina, negli ultimi mesi. Una lunga scia di
episodi inquietanti hanno portato ad un crescendo
di tensione in una fase delicata in cui
«alcune ‘ndrine potenti della provincia hanno
alzato il tiro contro la magistratura». Della fase
attuale e dei suoi possibili sviluppi abbiamo
parlato con Alberto Cisterna, sostituto procuratore
presso la Direzione nazionale antimafia, fra
i maggiori esperti del fenomeno ‘ndranghetista. 

Nel mirino delle cosche, ancora una volta, un
magistrato della procura di Reggio Calabria.
La ‘ndrangheta ha diretto un quantitativo di
esplosivo verso l’abitazione del procuratore
generale, Salvatore Di Landro. Che cosa sta
accadendo? 
La prima cosa da dire su questo attentato è
che si tratta di un atto grave, anche perché è la
prima volta che la mafia attacca un magistrato
già scortato e sottoposto a rigide misure di
protezione. Fatta eccezione per l’epoca tragica
del 1992, non era più accaduto che le mafie
dirigessero la loro protervia criminale verso
magistrati mentre sono sottoposti a tutela. Questo
è sicuramente il primo dato da segnalare in
questa vicenda. 
Poi ci sono anche tutte le altre intimidazioni
di questi mesi. In molti sottolineano il cambiamento
di marcia che si è innescato con
l’arrivo di nuovi colleghi, alcuni provenienti
da Palermo, all’interno della procura diretta
da Di Landro e Pignatone. Quanto ha inciso questo fattore nel provocare questa reazione
delle ‘ndrine? 
In sette mesi il Gip di Reggio Calabria ha emesso,
su richiesta della Procura, ottocento misure
cautelari. Questa cifra fornisce da sola un’idea
di cosa sia complessivamente, in questo momento,
l’attività di tutto l’ufficio. Perché – è
importante ricordarlo – si tratta di una grande
fase di produttività di tutta la magistratura inquirente
e giudicante. Un’azione di contrasto
che non fa piacere, di certo, alle cosche. Dire
che dietro l’attentato a Di Landro ci sia stata
questa unica motivazione è altra cosa. E’ vero
che questo attentato al procuratore Di Landro
avviene in un contesto di grande risposta e efficienza
contro la ‘ndrangheta, ma ricordiamoci
che colpisce personalmente Di Landro, calabrese
che da sempre opera a Reggio Calabria, la
sua attività presso l’ufficio che fra le altre cose
cura l’accusa in appello. Non v’è alcun dubbio,
in ogni caso, che il background che ha portato a
questa reazione sia stato lo straordinario lavoro
di questi mesi. 
Sul quotidiano La Stampa lei ricordava in
un articolo a sua firma come la ‘ndrangheta
necessitasse di una specifica risposta della
magistratura, diversa da quella che è stata
data in questi anni contro Cosa nostra e la
Camorra. Quale?
 
Continuo a dire da tempo che bisognerebbe colpire
le, circa venti, ‘ndrine che sono fra le più
potenti della Calabria, con priorità rispetto alle
altre che hanno un coefficiente di pericolosità,
diciamo così, inferiore; se andiamo a verificare
quali famiglie tengono i contatti con la politica
(basta vedere i processi in corso) si tratta
sempre di quelle considerate fra le più potenti.
Stessa cosa vale per gli investimenti all’estero.
Contro la ‘ndrangheta in Calabria, innanzitutto,
andrebbe fatta questa azione di potatura giudiziaria
delle cosche, d’altronde ormai note:
quelle che comandano a Reggio Calabria, ma
anche quelle di Catanzaro, altrettanto potenti e
minacciose. Fatta quest’opera di contenimento
del fenomeno, però è indispensabile bonificare
quei territori, ovvero accompagnare ad un’atti vità repressiva dello Stato un intervento che dimostri
come lo stesso sappia prendersi “cura”
di quei territori, attraverso il miglioramento dei
servizi comunali, delle strade, delle scuole. Io
dico sempre: «l’attività repressiva spetta alla
magistratura ma sappia la politica accompagnare
questa attività con il cambiamento». 
I numeri degli arresti e dei sequestri insomma
vanno accompagnati da una presa di responsabilità
perché siano davvero efficaci sul
territorio? 
Credo che un fenomeno che dura da decenni
ponga delle responsabilità alla classe politica.
Quando c’era il muro di Berlino, sino al 1989,
c’erano i Commisso, Piromalli, Iamonte. Quel
muro è crollato ma loro sono ancora qui. Sono
scomparse nazioni ma sono rimaste le stesse
famiglie della ‘ndrangheta, con gli stessi nomi.
Quale fenomeno storico ha questa persistenza?
Poco o nulla è sopravvissuto delle epoche
passate, eccetto la mafia. Mi rifiuto di credere
che la mafia sia strutturata nella società italiana,
piuttosto si tratta di una forma di violenta
imposizione che fino ad oggi non è stata contrastata
nel modo radicale che essa richiederebbe.
Questo pone un problema altrettanto radicale:
come accompagnare all’indispensabile lavoro
di repressione, un’azione di recupero di quei
territori? In caso contrario ha ragione il collega
Gratteri – e lo cito volentieri – quando afferma
nella sua intervista al Fatto: «non sono preoccupato
di quelli che mettiamo dentro ma dei
quei quindicenni che vengono affiliati mentre
arrestiamo gli altri». 
Sempre più spesso ci troviamo a raccontare
di una ‘ndrangheta che fa affari in tutto il
mondo con le radici saldamente piantate in
Calabria. Il livello economico – finanziario,
in particolare, oltre a quello politico sono la
“zona franca” che permette alle famiglie di
diventare una potenza economica nel Paese.
Come sciogliere questo nodo che le lega
segmenti di società. E chi li tiene saldamente
legati? 
Bisogna dire, innanzitutto, con fermezza che
quello che si sta contrastando in questo momento
in Calabria non è solo la mafia ma anche
gruppi parassitari, per fortuna minoritari, che
vivono anche di incarichi e commesse pubbliche,
di fondi pubblici, nella sanità, nell’edilizia,
ovunque, i quali temono un’azione di miglioramento
e innalzamento del livello di legalità. Sia
chiaro, quindi, non è soltanto la ‘ndrangheta a
sentirsi minacciata a Reggio. Io l’ho detto chiaramente:
se non ci fosse la cecità colpevole di
una parte della elitè calabrese, la ‘ndrangheta
non avrebbe l’arroganza di attaccare il procuratore
generale di Reggio. Quello che si è creato
è un clima di a-legalità o illegalità che vede
coinvolta una parte minima, ma significativa,
di ceti professionali, della politica, dell’amministrazione,
dell’economia locale, che fa finta
che non ci sia la ‘ndrangheta o opera come se
essa non ci fosse. E che di fatto agisce in conservazione
dello status quo. C’è una “massa
gelatinosa” che frena l’azione della magistratura
in Calabria; ed è una parte rappresentativa
di alcuni interessi organizzati nella società. Il
passo avanti da fare quando si usa il termine
“zona grigia” è cominciare a dire cosa la riempie,
cosa c’è dentro questo buco nero. Spesso si
semplifica parlando di poteri occulti, invece la
sensazione è che i poteri ci siano certo ma siano
molto palesi. L’operazione che serve a mettere
in chiaro queste cose non è facile, né molto gradita.
Ma in parte spetta anche a noi. 
Trafficano droga, riescono a ripulire soldi
sporchi, vincono appalti con prestanomi e
rilevano attività commerciali. Qual è oggi il
volto delle‘ndrine al nord? 
Il volto delle ‘ndrine al nord è la scommessa
vera del codice antimafia che si dovrà fare in
questo anno. Il piano straordinario antimafia è
stato approvato all’unanimità nelle due Camere.
L’ordine del giorno che accompagna questa
legge prevede la modifica del reato di voto di
scambio (denaro in cambio di voti) allargando
la fattispecie allo scambio fra voti e altre attività.
Nel nord Italia dove le mafie non mostrano
il loro volto militare, ma usano la corruzione,
l’ammiccamento e la collusione, il 416 ter è
più importante del 416 bis, ma ciò nonostante
non consente di punire queste condotte. Il codice
antimafia quindi si pone come una grande
occasione per porre mano ad una legislazione
molto severa su quella che, nella normativa
internazionale, viene chiamatao“il traffico d’
influenza”. Una norma non ancora recepita dal
nostro Parlamento (che ha perso l’occasione di
farlo dopo la Convenzione di Merida) consentirebbe
di colpire non le P2 -3 ma tutte le Pn che esistono in questo Paese: pieno di queste lobby,
saturo di questi intrecci che non si riescono più
a reprimere perché ci mancano i delitti che colpiscano
queste condotte. E’ questo è un vuoto
in cui la mafia si inserisce e fa il proprio gioco,
specie al nord, dove spesso si presenta con
volto pulito, e non sempre con attività illegali. 
Servono quindi nuovi strumenti quindi per
poterla colpire su tutto il territorio nazionale… 
Noi siamo fermi al 1982, abbiamo bisogno di
aggiornare questa norma perché in trent’anni
l’Italia, L’Europa, il mondo, sono cambiati.
Abbiamo bisogno di leggi integrate che ci consentano
di bonificare l’acquitrino dentro cui la
mafia si muove. Perché, se è vero che usano
l’esplosivo in Calabria, altrove non ne hanno
bisogno, poiché si muovono da perfetti sconosciuti
in un contesto che non sa isolarli, tutto
questo mentre in piena crisi economica «i soldi
puzzano molto di meno». C’è quindi bisogno
di nuovi strumenti che colpiscano quella “cecità
colpevole”, sanzionando anche solo a livello
patrimoniale o attraverso sanzioni interdittive,
chi assume condotte di questo genere. 
L’inchiesta “Crimine” ha colpito mafiosi
ma anche segmenti di società contigui ai
loro interessi in Lombardia. I cittadini, gli
amministratori locali, gli imprenditori, a suo
avviso, hanno percepito l’arrivo delle mafie
nelle regioni un tempo immuni dal fenomeno? 
Ho il timore che l’ attività di denuncia generica
non in grado di indicare alle persone anche gli
strumenti con i quali attuare una vigilanza, rischi
di fare il gioco del nemico. Non vorrei che
in questo Paese una parte dell’antimafia, suo
malgrado, diventasse una sorta di “agente pubblicitario
della mafia” perché se diciamo che
tutta è mafia, che sta vincendo in tutto il mondo,
la gente penserà che non c’è partita, “vincono
loro”. Gli strumenti per contrastarla invece esistono.
Però accade sempre più spesso che sindaci
del nord si impegnino a sposare politiche
sulla sicurezza che mettano al centro la “caccia
ai Rom” e facciano finta di non sapere chi rileva
le attività commerciali, le licenze, vince subappalti.
E’ grave che il concetto di sicurezza al
nord coincida con questa idea. Nel 2010 invece
sicurezza al nord dovrebbe intendersi come sicurezza
dalla criminalità organizzata. I sindaci
che hanno voluto poteri “straordinari” in merito
si occupino di chi fa man bassa di lottizzazioni,
apertura di centri commerciali e quant’altro. 
Nel provare ad indicare gli strumenti di
contrasto cui lei fa riferimento un ruolo
centrale lo svolgono i giornalisti, al sud
come al nord. Anche loro, da tempo, nel
mirino delle ‘ndrine. Perché la ‘ndrangheta
teme così tanto l’informazione? 
Il compito dei giornalisti è fondamentale.
Come ho sottolineato più volte, serve un’informazione
che non sia soltanto cronaca, ma
anche analisi. Quello che manca in Calabria
non sono cronisti coraggiosi, ce ne sono e
si vede, ma un ceto intellettuale che dia un
contributo di analisi sulla situazione calabrese.
Non è possibile che l’analisi sia affidata
ai magistrati, ai poliziotti e i tanti colleghi
impegnati in prima linea; questa, piuttosto,
spetterebbe ad un ceto intellettuale in grado
di spiegare, parlando a tutti. La Calabria ha
bisogno, in questa fase, sia della verità dei
cronisti che di una verità ulteriore. E’ qui che
ha ragione, mille volte, Roberto Saviano,
quando dice che con Gomorra è stata “una
operazione di verità”, ovvero la cosa che più
temono le mafie. In un contesto di overdose
di informazioni, i cittadini ricevono solo le
notizie di cronaca ma nessuno spiega le ragioni
o tenta un’analisi. L’Italia ha bisogno,
in questo momento, di un doppio livello di
verità: quella dei fatti e quella delle idee. E
talvolta mancano sia l’una che l’altra. Ecco
perché il primo nemico della criminalità organizzata
continua a rimanere il giornalista.
Lo è ancora prima del magistrato, poiché i
fatti che rende noto con il suo lavoro, rimangono
indelebili, non vanno a giudizio da un
giudice ma dalla collettività, il giudizio che
le ‘ndrine temono di più. In Tribunale dalle
accuse dei magistrati la ‘ndrangheta sa difendersi,
ha imparato come fare, ma con la
società civile no. Non conoscono strumenti
efficaci per difendersi dai cittadini quando
questi prendono consapevolezza.

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