A volte ritornano
«Il problema è che la mafia, al contrario della politica, non dimentica». Così scriveva Lirio Abbate nel suo libro “I Complici” che con quattro anni di anticipo sui procedimenti giudiziari odierni, ricostruiva, pezzo per pezzo il passato dell’attuale presidente del Senato, Renato Schifani, prima di arrivare a Palazzo Madama. Molto prima. I fatti risalgono agli anni Ottanta e Novanta, quando ancora lontano dalla brillante carriera politica, coltivata sotto l’ala protettiva di Berlusconi, Renato gestiva a Palermo uno studio legale.
Nel libro scritto a quattro mani con il giornalista Peter Gomez, l’attuale inviato de L’Espresso, racconta dei rapporti di Enrico La Loggia (vice presidente del PDL alla Camera dei deputati) e di Renato Schifani con personaggi come Nino Mandalà, uomini di Provenzano, che pilotarono fra le altre cose concessioni edilizie nel Comune di Villabate, e grazie a Francesco Campanella, ex segretario dei giovani dell’Udeur, colletto bianco in nome e per conto della famiglia Mandalà, falsificarono la carta d’identità del boss numero uno di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, per consentire all’anziano corleonese di recarsi all’estero, da latitante, e subire un’operazione alla prostata, con la finta identità di Gaspare Troia.
Una vasta rete di fiancheggiatori coprirono la latitanza del boss e oggi molti di loro ricoprono una altrettanta vasta gamma di ruoli che dalla Regione arriva sino al Parlamento. Un muro di silenzio e rispetto, per il ruolo ricoperto oggi da Schifani, ha avvolto queste ed altre notizie. Ogni qual volta si è tentato di parlare, ad esempio, in televisione o sui quotidiani, degli affari della Sicula Brokers, la società che Renato Schifani creò nel 1979 e che fra i soci annoverava nomi oggi coinvolti in processi di mafia, come Nino Mandalà, Benny D’Agostino (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) Giuseppe Lombardo (collegato agli esattori della mafia, Nino e Ignazio Salvo, già al centro delle inchieste di Giovanni Falcone) è accaduto di tutto.
Gli schieramenti politici, da destra a sinistra, compatti, hanno fatto muro contro queste accuse mosse ingiustamente all’attuale presidente del Senato, che dal canto suo si è sempre difeso, specificando come i fatti siano vecchi e risalgano ad anni in cui quei soci non risultavano in contatto con la mafia. Questa la difesa che in questi anni il presidente della seconda carica più importante dello Stato ha utilizzato per tutelarsi da questi “scheletri nell’armadio” tirati fuori intorno all’inchiesta sulla latitanza di Provenzano e sulle irregolarità al piano regolatore del Comune di Villabate.
Questa estate però si è consumato, sempre attraverso le pagine del settimanale L’Espresso (e ancora a firma di Abbate) un altro capitolo di questa vicenda. Il giornale ha dato notizia delle deposizioni del pentito, Gaspare Spatuzza (colui che ha permesso di riaprire i processi per le stragi, raccontando una verità per anni nascosta dalla mafia, e forse anche da pezzi dello Stato) che parla di Renato Schifani come anello di congiunzione fra la mafia dei fratelli Graviano, di cui il boss di Brancaccio fu la mano armata, e il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, attraverso Marcello Dell’Utri.
Il premier e il suo mentore condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa, sono già stati indicati dal boss di Brancaccio, in varie occasioni, come i terminali ultimi della seconda fase della cosiddetta “trattativa” che intercorse con parti dello Stato, proprio nel biennio stragista. «Ci hanno messo il paese nelle mani», avrebbe detto uno dei fratelli Graviano a Spatuzza, quando un giorno chiese delucidazioni sulla stagione delle bombe del 1993, a Roma, Firenze e Milano. «Tu non ne capisci di politica» – avrebbero detto all’epoca al boss di Brancaccio i due fratelli, che secondo Spatuzza, ebbero “garanzie” precise, molto in alto, fra i vertici politici.
L’ex killer di Brancaccio, secondo il settimanale, l’ottobre scorso davanti ai giudici di Firenze avrebbe parlato proprio di questi rapporti e fatto il nome di Schifani. Frasi subito rigirate, per competenza, alla procura di Palermo, in un documento top secret che però in parte è stato ammesso agli atti del processo al senatore Marcello Dell’Utri (condannato a sette anni per concorso esterno). Si tratta di notizie, le prime come le ultime, che attendono ancora altri riscontri processuali, e sono solo una parte dei processi in corso. I fratelli Graviano, Giusppe e Filippo, non hanno sino ad oggi confermato le parole di Spatuzza. Dei due il primo si è riservato di non rispondere alle domande dei giudici, il secondo l’ha fatto e negando la versione di Spatuzza.
Dopo alcuni mesi Giuseppe Graviano è andato incontro ad un lieve miglioramento delle sue condizioni carcerarie (41bis). Dopo la pubblicazione della notizia su L’Espresso, il presidente Schifani, «indignato ma sereno» ha affermato: «’ipotesi formulata dal settimanale sulla scorta di non riscontrate né riscontrabili dichiarazioni che avrebbe reso Gaspare Spatuzza è priva di ogni fondamento e del tutto fantasiosa ». Staremo a vedere, se le dichiarazioni del pentito cui una Commissione del Viminale ha negato il programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia (il suo legale sta presentando proprio in questi giorni ricorso, con non poche difficoltà) troveranno riscontri processuali e prove. A volte ritornano, è il caso di dire.
Ma la cosa che sorprende più di tutte in questa calda fine estate del 2010 è che l’inchiesta del sempre puntuale, Lirio Abbate, sia stata ripresa soltanto dal quotidiano Il Fatto (che oggi, in un articolo di Peter Gomez, continua a dare notizia di tutti gli affari seguiti dall’86 al ’93 per conto dell’imprenditore Giovanni Costa, di Villabate, condannato per riciclaggio in primo grado, negli anni in cui i suoi affari si incrociarono con quelli di Schifani). Per tutti gli altri media, questi fatti non sono notizia, né per smentire, né per verificare. Il muro di gomma, a ragione o a torto, si è levato come scudo protettivo – preventivo nei confronti del politico che oggi ricopre un ruolo importante per il Paese. Pochi o nessuno, soprattutto nelle televisioni del servizio pubblico, hanno cercato di approfondire quella che se verificata, sarebbe la peggiore delle verità, nascosta dietro le stragi.
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