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Messina Denaro, sappiamo essere il Paese dell’Antimafia ma guai a sottovalutare certi segnali

Gian Carlo Caselli il . Corruzione, Costituzione, Giustizia, Mafie, Politica, Sicilia, Società

Matteo Messina Denaro, come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, è stato catturato dopo un lunga latitanza. Prova di una diffusa rete di complicità e connivenze che li sosteneva e proteggeva.

Tutti e tre erano boss di primaria grandezza, ciascuno a suo modo con un ruolo centrale nella storia criminale di Cosa nostra. Sono tre colpi durissimi inferti a quella che era la più potente e pericolosa associazione mafiosa, oggi forse raggiunta se non soppiantata dalla ‘ndrangheta.

Colpi durissimi che, insieme alle tante altre attività investigativo-giudiziarie che si sono susseguite dopo la legge Rognoni-La Torre e il maxiprocesso del pool di Falcone e Borsellino, sono lì a dimostrare che il nostro Paese – dove prima la mafia “non esisteva”, se non come semplice mentalità – è diventato un Paese che ha sì problemi di mafia, ma sa anche essere il Paese dell’antimafia.

Però attenzione: va evidenziato sempre (in modo particolare dopo la cattura e/o la morte di boss come Riina, Provenzano e ora Matteo Messina Denaro) un nostro chiaro limite culturale.

Quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto in situazioni di emergenza, quando, cioè, la mafia mette in atto strategie sanguinarie; trascurando i rischi della convivenza con la mafia quando – catturati o scomparsi i capi “stragisti” – essa adotta strategie “attendiste”, dimenticando la sua lunga storia di violenze e quella straordinaria capacità di condizionamento che ha fatto di un’associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale.

Lo specifico mafioso consiste essenzialmente in organizzazione e – come già detto – connivenze. Ma accanto alle connivenze una parte importante hanno avuto oltre ai comportamenti penalmente rilevanti, anche le ambiguità, gli ammiccamenti, le sottovalutazioni, i ritardi, le superficialità, i tanti regali fatti alla mafia, in buona fede o per timidezza, per ignavia o per viltà.

Ecco perché – ancora oggi – certe iniziative rischiano di costituire dei “segnali” che si prestano ad essere fraintesi. Dalla clamorosa gaffe (poi rientrata) del ministro Nordio, che ha teorizzato l’inutilità della intercettazioni nei processi di mafia perché tanto… i mafiosi non parlano al telefono; fino alla “bocciatura” di un campione dell’antimafia come don Luigi Ciotti (neanche nominato per spregio, ma solo indicato come un signore in tonaca), prima coperto di contumelie poi invitato a lasciare il patrio suolo dal ministro Salvini, inebriato dal ponte sullo Stretto.

Tutti esempi di limiti politico-culturali di approccio al problema, poco incoraggianti per chi continua a impegnarsi quotidianamente nel contrasto alla criminalità organizzata.

Va ancora segnalato come il contrasto della mafia sia rimasto sempre nel quadro delle regole democratiche, sebbene i mafiosi siano un pericolo esiziale, la negazione assoluta dei valori costituzionali.

Perché praticano un metodo di intimidazione, assoggettamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese, così contribuendo in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana: esattamente l’opposto di quel che chiede l’art. 3 capoverso su cui si fonda la Costituzione.

Questo rispetto delle regole doverosamente applicate anche ai nemici della democrazia è dimostrato dall’assistenza sanitaria continua e di prim’ordine che Messina Denaro (e prima di lui Riina e Provenzano) ha ricevuto in carcere come suo diritto.

Il Fatto Quotidiano, il blog di Gian Carlo Caselli

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Carlo Alberto dalla Chiesa aveva intuito l’esistenza del ‘polipartito’ della mafia

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