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Mafie, media e identità nell’era del web 2.0

Di Stefano Fantino il . Interviste e persone

Mafiosi che scrivono canzoni, mafiosi che soprattutto le fanno circolare sul web. Da qui e dalla notizia del capobastone Bellocco che componeva le sue musiche nasce il pretesto per cogliere il rapporto sempre più stretto tra le mafie e la nuova tecnologia in una logica perversa che descrive perfettamente la bidimensionalità mafiosa: atavica e ultramoderna. Capace di rimanere ancorata alla sua mentalità e allo stesso tempo farsi attrice nel mondo globale e tecnologico. Al fine di propagandare e costruire il suo mito che troppo spesso, e a volte anche a causa dei media, risulta grossonalamente confuso con una identità meridionale dalle quali la “cultura” mafiosa si discosta nettamente. Cogliamo l’occasione per approfondire il tema, intervistando Francesca Viscone, docente e giornalista, esperta conoscitrice dell’argomento  e già  autrice nel 2005 di “La globalizzazione delle cattive idee”, Mafia, musica, mass media, per i tipi di Rubettino.

La vicenda di Gregorio Bellocco di qualche giorno fa non solo ci fa interrogare sul rapporto tra musica e mafie, ma soprattutto sul rapporto divulgativo con le nuove tecnologie, visto che le canzoni finivano poi in rete. Di che rapporto stiamo parlando?

Se le mafie non avessero la capacità di adeguarsi ai cambiamenti della società scomparirebbero nel giro di pochissimo tempo. Il fatto che siano longeve e che riescano a portare avanti i loro miti e i loro valori è dovuto proprio alla capacità di usare tutti gli strumenti che la modernità mette loro a disposizione, a cominciare dagli strumenti tecnologici. Loro, in realtà, da un punto di vista culturale non sono cambiati, sono uguali a un secolo fa, con una mentalità simile a quelli di vecchi boss, vogliono ancora dominio, potere, controllo del territorio e, soprattuto,  fare proseliti. Hanno bisogno di consenso, di allargare non tanto le fila di chi materialmente li aiuta, ma la cerchia di chi li sostiene con il silenzio. Questo spiega l’uso delle tecnologie; uno strumento come internet, come YouTube, consente loro di essere seguiti in ogni parte del mondo. E questo per i mafiosi è molto affascinante: il loro pensiero fisso è quello di estendere ovunque il loro dominio sulla società, da un punto vista economico sì, ma anche tramite il consenso e la paura.    

Un’evoluzione non nel modo di pensare ma nel rapportarsi ai cambiamenti sociali e tecnologici della società circostante, dunque?

Sì, questa evoluzione non implica un cambiamento culturale e valoriale  ma solamente un cambiamento di rapporto con la realtà circostante. Come cinquantanni fa si parlava tramite proverbi e cantanti locali, ora allo stesso modo si utilizza la stampa, si utilizzano i giornali, si utilizzano i giornalisti. Esiste una vasta strumentalizzazione di tutto quello che fa comunicazione perché la cosa importante è mandare il proprio messaggio, farsi conoscere, far sapere chi si è e quale è il proprio potere, in modo tale da poter affascinare il maggior numero di persone.

La creazione di un mercato musicale parallelo, con prodotti che ineggiano ai boss, spesso funge da base per il consenso, ma è bene notare come funzionale al creare, o meglio all’alimentare una sorta di mitologia, è anche il lavoro di molti media, che con un approccio “etnografico” spesso mettono in luce alcuni aspetti delle mafie, di fatto relazionandoli con una cultura meridionale, atavica e ferina. È così?  

 

Questa è una cosa molto grave che spesso viene sottovalutata dai giornalisti, che spesso si giustificano dicendo che il loro compito è solo quello di raccontare i fatti. Ma sappiano benissimo che i fatti possono essere raccontati in molti modi; già il taglio che si dà alla notizia, il modo in cui la si imposta, l’uso di alcuni aggettivi al posto di altri, significa dare al lettore una chiave di lettura. Io credo che sia un po’ pericoloso separare dall’etica e dalla deontologia una professione, soprattutto nel giornalismo dove la capacità di influenzare un pubblico vastissimo ti conferisce un notevole potere. Sul fatto che si tenda a creare questa mitizzazione, posso dirti che ai mafiosi piace molto. Una cosa che abbiamo visto tante volte è infatti la tendenza a ricrearlo.

Il sequestro sia in Calabria sia in Campania di ville costruite su canoni holliwoodiani rappresenta bene la ricerca anche esterna di una mitologia; il mafioso che si specchia nel cinema per cercare e riprodurre un suo personale mito…

Il mafioso riconosce nel film la propria immagine ideale. Già questo sarebbe utile e sufficiente per decostruire la mitologia del mafioso ricco e godereccia. Egli si ricrea un mito, una vita ideale perché questa non esiste nella sua realtà, fa parte solo del suo immaginario. Una vita idealizzata che lui vorrebbe fare, che vorrebbe che gli altri credessero che lui faccia mentre in realtà non fa. La loro vita reale è miserabile, peggiore di quella di una persona qualsiasi senza denaro e potere.

E quando si parla di queste ville, ad esempio, raramente si fa un passo in più e se ne raccontano i retroscena…

Esattamente, nelle varie notizie date dai tg non è stato detto, ad esempio, chi ci abitava dentro, che il boss non risulta proprietario. Ma spesso accade nei tg, dove è difficile avere un approfondimento: la notizia viene data e spetta allo spettatore andare ad approfondire. Sempre su questo caso: le ville non risultavano accatastate. Un cittadino normale non farebbe mai la follia di costruire un edificio sapendo che non può accatastarlo o magari intestarlo a nome suo. Il fatto che i mafiosi lo facciano, significa che a loro non importa che lo Stato riconosca il loro potere; questo si basa sul fatto che possono anche “fregarsene” di tutto questo. Sono cose che nessuno, secondo loro, potrà mai sottrargli, per questo è molto importante la legge che consente la confisca dei beni: significa distruggere i mafiosi, la loro immagine, il loro potere, toglier loro quel senso di onnipotenza su cui basano tutto quello che fanno. I media dunque dovrebbero stare attenti al significato della notizia, altrimenti potrebbe risultare questo: che un mafioso ha potuto costruire una villa che un cittadino normale non avrà mai.

Le mafie che irrompono nel circuito mediatico potrebbero dare il via alla confusione tra cultura mafiosa e identità meridionale, accade talvolta?

Non si può negare che le mafie siano nate al Meridione, come anche che all’estero le mafie sono arrivate perché dei meridionali ce le hanno portate. Dopodiché, questo non significa che la cultura popolare meridionale è di per sé mafiosa, significa solo che una serie di cause sociali, storiche ed economiche hanno fatto sì che nel Meridione nascessero le mafie. Ora, c’è una differenza fondamentale tra l’identità mafiosa e l’identità meridionale; già di per sé quest’ultimo sarebbe un concetto da scardinare perché identità meridionali ce ne sono molte, composite e diverse. All’interno della cosiddetta identità mafiosa ci sono degli elementi che sono stati presi dalla cultura popolare meridionale ma questo perché molti mafiosi per ceto sociale e vicinanza, provengono dalle classi sociali basse. Ma i mafiosi rimango sempre una minoranza; i valori della cultura popolare sono oppositivi alla cultura mafiosa. A cominciare dal diverso modo di concepire, ad esempio, il concetto di “onore”. Nella cultura popolare è il mantenimento della parola data, in un contesto dove il contratto scritto non esisteva e tutto veniva fatto verbalmente, era qualcosa di orale a cui bisognava tenere fede. L’esasperazione del concetto di onore nella cultura mafiosa si fa estremo, diventa paranoico: non è il mantenimento della parola data, ma una impossibilità radicale e assoluta di mettere in discussione il dominio, il potere di qualcuno.  Non c’è spazio per una trattativa o un contratto , significa adeguarsi alle decisioni di una persona, e ai suoi cambiamenti: una sacralità, un dominio che tu devi riconoscere sempre.

Due modi contrapposti, puoi farci un altro esempio?

Un esempio può essere quello del rapporto coi defunti. Nella cultura popolare questo è rapporto di continuità, non c’è separazione tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Questa assenza comporta che chi vive coltiva il rispetto dei morti, il rispetto della memoria, tramite un dialogo coi defunti, con persone riconosciute santi o persone ritenute speciali nel risolvere “la crisi” della presenza. Questo nella cultura mafiosa è stato trasformato nella faida e nella vendetta. Per cui la continuità tra vivi e morti nella mentalità mafiosa terrorizza e fa paura perché l’ucciso non perdona ma chiede vendetta. Le faide sono una catena di omicidi che vengono fatti per mettere a tacere la sete di vendetta del defunto: nella cultura popolare il defunto non ha sete divendetta, ha pietà per i vivi come loro hanno pietà per lui e per la sua morte.Nella cultura popolare si fa di tutto perche il defunto stia bene: si prega, si dialoga, si da continuità ai suoi desideri. Nella  cultura mafiosa far stare in pace un defunto significa solo placare la sua sete di vendetta uccidendo il suo assassino. Si tratta  di due universi mentali a volte contigui, ma molto diversi, per certi versi opposti.

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