Il 19 di Luglio
Sommario: 1. Perché non il 19. – 2. Il vizio del fumo (a). – 3. Luglio dopo maggio. La strage di Capaci. – 4. Paolo Borsellino. Una amicizia walking along (strada facendo). – 1 bis) Il Procuratore di Marsala. – 2 bis) La doppia intervista. la scoperta (di Paolo Borsellino). – 3 bis) Il focus dei ricordi. – 5. Le intermittenze del cuore. – 6. Il vizio del fumo (b) “Come una sigaretta”. – 7. Un ricordo duale.
1. Perché non il 19.
Finalmente è passato anche questo 19 luglio. Oggi infatti è il 20 luglio, il giorno dopo, e comincio da oggi ad esplorare il continente Borsellino, il mio.
Finita quindi la grande “ammuina” del giorno anniversario – della mattanza di Paolo Borsellino e della sua scorta – tra l’altro funestato anche dalla scomparsa improvvisa di Andrea Purgatori, che nella sua ricerca di approfondimenti sui grandi misteri italiani non aveva tralasciato certo la “falsa narrazione” del falso pentito, che aveva trascinato in carcere per anni un pugno di soggetti certo non di specchiata onestà, ma di quel delitto orribile innocenti (a proposito di “misteri”, piccoli ma non trascurabili, qualcuno ha capito le vere ragioni per le quali la Presidente del Consiglio dei ministri non ha partecipato alla fiaccolata serale? Ripeto, “le vere ragioni”).
Io non ci sono mai andato, ma per ragioni chiarissime, che ho esposto più volte, le stesse che mi hanno impedito di prendere parte alle “celebrazioni” del 23 maggio, anniversario dell’attentato di Capaci. E’ molto difficile, in una Babele come quelle, “capare” tra la folla di partecipanti, tutti debitamente mesti, quelli che davvero si rattristano e si sono rattristati, e tentano di non rassegnarsi, dai tanti che partecipano come si assolve ad un dovere, il cui significato ormai si appanna sempre di più.
Per continuare a remare “in direzione ostinata e contraria” (v. De Andrè), provo a raccontare un poco di storia, a cominciare dal mio 19 di luglio. Sicuramente non per dare un esempio, ma per completare il “quadro” di testimonianze.
2. Il vizio del fumo. (a)
Quel 19 luglio era domenica ed io cominciavo le mie ferie (spesso sfigate, le mie ferie, a cominciare da quelle del 1990, marchiate dall’omicidio di Antonino Scopelliti, il collega ufficiosamente designando per sostenere l’accusa in Cassazione al famoso maxi processo di mafia, istruito dal pool dell’ufficio istruzione di Palermo, guidato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ne ho già abbondantemente parlato e scritto – precisando che quel delitto determinò la mia decisione di avanzare la candidatura a sostituire Scopelliti, proposta accolta dal Procuratore Generale Sgroi, che ne nominò altri due per evidenziare la assoluta peculiarità del caso – e quindi non ne accenno più). Quella pigra mattinata domenicale era cominciata secondo il rito abituale, seduta in bagno, prima lettura del quotidiano, prima sigaretta, una delle pochissime davvero “gustate”, essendo le numerose successive “massificate” proprio per il numero eccessivo (viaggiavo sul pacchetto quotidiano, nonostante le filippiche ostinatamente ripetute di Giuliana, che aveva preso il testimone da mia madre). Ero quindi in bagno, e la poco frequentata intermittenza mentale, per cui mettevo tra parentesi i problemi dell’ufficio, si presentò, severa come al solito, per procedere al rituale esame di coscienza, nell’ordine solito – prima l’esame della coscienza del giudice, poi quello della persona, uomo, marito, figlio, padre di due bambine, fratello, e infine quello del politico, che ero stato fin dall’età della ragione, sempre dalla parte sinistra, sempre cercando di tenere insieme la passione politica e il necessario equilibrio imposto dalla toga (regalatami da mamma e papà al superamento del concorso).
Durante questa accurata analisi, era tornata in primo piano la questione del fumo, forse per qualche significativo colpo di tosse. Mi ero ricordato, in quel momento, che avevo promesso a me stesso di provare seriamente a cancellare quella dipendenza al compimento del cinquantesimo anno, per nessuna ragione che non fosse quella della significatività del numero (con cifra tonda, particolare sempre foriero , quindi, di meditazioni non peregrine). Il mio compleanno, ad aprile, era stato il n. 49 e non 50, avrei potuto continuare a fumare per un anno ancora, senza complessi di colpa, data la vicinanza cronologica del termine prefissato da me con me stesso. Però , procedendo a riavvolgere il nastro del mio approfondimento sul punto specifico, mi ero chiesto perché dovevo tentare di buttar via le sigarette soltanto a quota 50 anni, e non 49. Spietatamente, cancellai le presunte ragioni alla base di quella decisione e giunsi alla conclusione che potevo cercare di non fumare più dall’età di 49 anni, cioè dall’anno che stavo attraversando. Attimo, o forse momento più duraturo, di sorpresa e preoccupazione –avrei saputo resistere a partire da “qui ed ora”? – e infine gettai la sigaretta, ancora accesa, nel water, consolandomi con il detto “cosa fatta capo ha”.
Comunicai la mia decisione a Giuliana che ne restò colpita – forse per questo ebbe una reazione freddina, non quella festosa che mi ero figurato – e continuai a percorrere la giornata di quella domenica, per me da segnare sul calendario col pennarello, per gli altri, messi al corrente della situazione, da infilare nella collana degli avvenimenti giornalieri, con appena un accenno di stupore. Ce ne sono pure altri, di pensieri, più interiori, ma qui basta ricordare che, ad un certo passaggio delle mie riflessioni mi venne in mente il nome di Italo Svevo, e la sua sinfonia sul vizio del fumo (“La coscienza di Zeno”); immediatamente dopo, però, si fece vivo il senso del ridicolo, concretizzandosi nel famoso verso di Virgilio “Si parva licet…” frase latina, subito seguita dalla traduzione “se si può paragonare le piccole cose alle grandi”, come se stessi scrivendo una requisitoria, nelle quali non citavo mai espressioni latine, se non tradotte.
3. Luglio dopo maggio. La strage di Capaci.
Non ricordo per niente quel pranzo, nemmeno se era stato allietato (Giuliana era una eccellente cuoca) dai parenti che spesso ci facevano compagnia nei giorni di festa, secondo usi più meridionali che nordici.
Ricordo invece, come un insieme indistinto di sensazioni e sentimenti, la voce concitata di Giuliana che era corsa a svegliarmi dalla abituale pennichella post prandiale, e il tono allarmato degli annunci televisivi, mentre sullo schermo apparivano, ancora vagamente, quelle immagini indistinte ed insieme frenetiche che in seguito avrebbero accompagnato ogni “celebrazione” di quelle giornate, o meglio di quella giornata (a cominciare dalla 126 verde, squarciata e annerita dall’esplosione della bomba introdotta al suo interno). Non capii subito, ma subito invece mi si strinse lo stomaco, come se il corpo avesse compreso l’accaduto, che la mente si rifiutava di accettare. A questo punto i ricordi si intrecciano e accavallano, ma quasi immediatamente mi tornò alla mente un episodio, del maggio precedente: ero “sceso” a Palermo, come dicevano sempre i miei amici siciliani, soprattutto per sostenere il morale dei colleghi che avevano lavorato una vita con Giovanni Falcone, ucciso qualche giorno prima nell’attentato di Capaci. Assistito alla grande e tragica cerimonia religiosa nella cattedrale, quello stesso pomeriggio riuscii a riunire i “ragazzi delle scorte” feci una lunga camminata con loro, una strana processione sotto la pioggerellina che scendeva dal cielo, ad accompagnare le lacrime che quasi non riuscivamo a trattenere. Tornati al palazzo di Giustizia, quella grande testimonianza piacentiniana, che avevo visto tante volte, nelle mie frequenti visite a Palermo per mettere le basi della nuova “formazione” (corrente, se non suonasse male) di magistrati, che avevo con tanti altri contribuito a far nascere come reazione alla vergognosa bocciatura -da parte del Consiglio Superiore di cui facevo parte- della domanda di Falcone per il posto di Consigliere istruttore, come successore del “padre” del pool antimafia, Nino Caponnetto.
Ricordo pochissimo del discorso che tenni in quell’Aula Magna, davanti ad uomini e donne che sapevano per esperienza personale che cosa era la mafia, e che proseguivano, con i loro interventi, scarni, bruschi, immediati, la protesta che la mattina aveva accolto i rappresentanti ufficiali del potere, piovuti a Palermo per la cerimonia funebre.
4. Paolo Borsellino. Una amicizia walking along (strada facendo).
1 bis) Il Procuratore di Marsala.
Il mio rapporto con Paolo Borsellino non è nato bene, ma è cresciuto meglio, per finire benissimo, e insieme malissimo.
Paolo, dopo il primo incontro, era rimasto, per me, sfumato nella galleria di colleghi raccolti dietro Giovanni Falcone. Tanto è vero che la conoscenza della sua militanza politica, sotto le bandiere del Movimento Sociale di Almirante, mi aveva colpito negativamente, ma mi era apparsa come una notizia nuova, mentre nel suo ambito professionale era nota a tutti. Eletto al Consiglio Superiore, Borsellino mi aveva colpito, ancora una volta non positivamente, quando aveva presentato domanda per la nomina a Procuratore della Repubblica di Marsala, di fronte a concorrenti notevolmente più anziani. L’esame della sua domanda, approfondito in ambito “correntizio” prima che ufficialmente, cominciò a far emergere la prime, visibili faglie all’interno della allora “mia” corrente, cioè Unità per la Costituzione, brevemente Unicost. Si parlò a lungo, tra di noi, del valore dell’anzianità di servizio come criterio principe di valutazione, ed io cominciai ad avere i primi, grossi dubbi. Se esisteva una “carriera” tra i giudici, ed esisteva, senza dubbio, anche se ufficialmente negata, non mi pareva corretto e ragionevole l’automatismo del ragionamento dei miei “compagni di maglietta” (come avevamo deciso di nobilitare il termine “corrente”), per cui bastava una vita professionale intessuta di tran-tran, senza cadute “innegabili” (ma se la maglietta era la nostra, si poteva cercare di negare, o almeno di “smussare”), per arrivare a sedersi sulla “poltrona del comando”; io, invece, pensavo, e da un pezzo, che su quella poltrona era ragionevole farci sedere chi forniva qualche garanzia di saper esercitare il comando in maniera efficace ed intelligente, qualunque fosse la sua anzianità. Mi ero battuto a lungo, all’interno di Unicost, per fare accettare questa tesi, che era l’unica che potesse garantire un “servizio giustizia” (altra espressione sempre più di moda, specie tra chi non aveva alcuna idea del concetto di “servizio”); dopo una prima fase di sordità –e ci furono anche quelli che attribuivano i miei interventi appassionati alla mia ancora scarsa anzianità- pian pianino la tesi fu, non dico accettata, ma almeno non ostracizzata, sia pure accompagnata con una gigantesca sordina. In sostanza si tentò di aggirare il principale argomento contrario, l’assurdità di una “carriera” riservata soprattutto agli scansagrane, aggiungendo qualche addendo alla anzianità nuda e cruda, e così si teorizzò una limitazione della non rilevanza del distacco di carriera entro certi limiti- la famigerate “fasce di anzianità”, per cui i concorrenti ad un posto di potere/vertice potevano essere valutati soltanto se non erano troppo meno anziani di chi li precedeva nel ruolo; poi al criterio delle “fasce” si aggiunse quello del “non demerito”, soddisfacente in teoria, pochissimo rilevante, se non addirittura irrilevante in un pratica nella quale il giudizio dei capi sui colleghi non peccavano quasi mai di oggettività (vecchio problema, risalente alla costituzione del primo Consiglio Superiore e sostanzialmente irrisolto ancora oggi).
Tutti queste costruzione teoriche si sprecarono per il “caso Borsellino”, nella cui discussione ci fu un “rovesciamento delle alleanze”, per cui i gruppi più tradizionalisti indossarono le vesti dei progressisti, e viceversa. In conclusione a favore di Borsellino pesò molto più la sua militanza associativa nel gruppo di Magistratura Indipendente, il più numeroso e potente all’epoca, mentre non trovò, secondo me, adeguata valutazione la sua carta più meritevole, cioè l’appoggio di Giovanni Falcone, che effettivamente aveva spinto Borsellino ad avanzare quella domanda la quale, nei progetti falconiani, doveva cominciare ad esportare in periferia la prassi investigativa palermitana, visto che, sempre secondo Giovanni, il fenomeno mafioso a Palermo stava scemando di entità e pericolosità E fin da allora intuii che, dietro una ipervalutazione favorevole di Falcone, si andava acquattando tutta una serie di distinguo, variamente distribuiti nei vari schieramenti, sia di magistrati, sia di non magistrati (i c.d. laici ).
Borsellino alla fine diventò Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala , con parecchi voti ed alcune astensioni, in gran parte di Unicost; non ricordo il mio voto, certo non favorevole, non per lo schermo ipocrita della minore anzianità, ma invece sostanzialmente perché non ero affatto convinto che la mafia di Palermo stava per essere sconfitta, checché ne pensasse Falcone, delle cui visioni politiche cominciai a dubitare fortemente (nel senso che Giovanni capiva moltissimo in materia di mafia, ma pochissimo se si trattava di questioni politiche, in senso stretto).
2 bis) La doppia intervista. la scoperta (di Paolo Borsellino)
Ma iniziai a stimare fortemente Paolo per il suo comportamento durante tutta la vicenda che fu poi chiamata “il caso Falcone”.
Premetto che nella prima fase di quella tristissima questione io non ebbi notizie precise sulla posizione di Borsellino, che, però, risultò schierato fin dal primo momento a favore del suo amico e collega, portando lo scompiglio tra le fila della corrente di Magistratura Indipendente, alla quale apparteneva, non in posizione secondaria, Vincenzo Geraci, eletto nel Consiglio di cui anche io facevo parte, e che si manifestò, nella sostanza, il più accanito avversario della nomina di Falcone.
Ma della posizione di Borsellino, dopo la nomina di Meli -l’onesto e secondo me poco consapevole concorrente, nominato infine Consigliere dirigente dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo- fummo messi tutti al corrente, anche in ambito nazionale. Uscì, infatti, una intervista di Borsellino sull’indubbio calo della attività antimafia dell’Ufficio istruzione di Palermo, sotto la guida del dottor Meli, e l’intervista – nella quale non si risparmiavano critiche durissime e circostanziate – fu pubblicata identica su due quotidiani nazionali nel mese di luglio (Meli era stato nominato a gennaio). L’intervista ebbe l’effetto di una pentola di acqua bollente in un nido di vespe (esperienza personale traumatica di Giuliana, allora ancora mia fidanzata).
Nonostante fossimo alla vigilia del periodo feriale, che per il CSM durava da fine luglio a circa metà settembre, subito entrarono in azione le “truppe antifalconiane”, guidate dall’ineffabile consigliere Geraci, che pretesero l’immediata convocazione del Comitato antimafia, articolazione interna del Consiglio. Alla prima seduta del Comitato partecipammo la quasi totalità dei consiglieri, disposti a seguire i lavori per quanto potessero durare. Lunga la serie dei magistrati palermitani coinvolti, lunghissime le sedute dedicate, durante una diecina di giorni. Finita l’istruttoria, iniziò l’ultima seduta ufficiale, dalla quale doveva uscire un documento conclusivo. Documento per la cui stesura fu spesa l’intera serata e tutta la nottata, con una interminabile serie di incontri a gruppetti separati negli intervalli dei lavori formali. Della vicenda furono in buona parte spettatori –per la parte pubblica- i colleghi convocati da Palermo, mentre agli incontri “ristretti” parteciparono di persona, quelli che volevano.
In quella occasione apprezzai pienamente la statura morale, prima ancora che politica, di Paolo Borsellino, l’abilità e la dignità che lo trasformarono pian piano da “imputato” a testimone. Contro quella maggioranza di componenti del Consiglio Superiore che aveva bocciato la candidatura di Falcone -dopo la batteria incredibilmente ipocrita di dichiarazioni illimitatamente laudatorie- Borsellino, quell’omino pacato, pacatamente confermò la sua intervista, arricchendola di precisazioni e puntualizzazioni sempre significative, ben sapendo di avere contro “gli antifalconiani a prescindere”. Il “caso Falcone” si allungò fino a comprendere il “caso Borsellino”, con il quale si tentò di illuminare un favolistico “dietro le quinte”, tutto mirato a colpire o , quantomeno, a punzecchiare i magistrati protagonisti di quel processo monumentale, che poi è diventato il maxi processo per antonomasia. Quella vicenda, incredibilmente “sussultoria” (nel senso di strappi e sussulti puntualmente e indebitamente resi pubblici), ha continuato a pesarmi nella memoria e, spesso, anche nell’anima, costringendomi a una faticosa “rimozione”; di quella vicenda, tuttavia, mi tornano in mente due immagini, una quasi esclusivamente visiva e l’altra ricca anche di un “parlato”, mai registrato, eppure ancora vivo nelle mie orecchie.
3 bis) Il focus dei ricordi.
Il primo brandello di memoria si colloca nella grande sala del Plenum del Consiglio superiore, pienamente illuminata dalla potente luce artificiale ma “sfiorata” dalla assai più suggestiva luce naturale dell’alba, che stava sorgendo nel cielo di Roma. In una delle tante pause che punteggiavano l’aspra discussione, al limite del diverbio, tra i componenti del Consiglio, presenti nella quasi totalità, girai gli occhi dai finestroni, attraversati dai riflessi rosa dell’alba, ai volti dei protagonisti, e mi accorsi di un elemento visivo nuovo, che avvertivo chiaramente ma non riuscivo a identificare chiaramente. Pochi attimi di perplessità e poi la improvvisa, ma innegabile “scoperta”: sui volti dei colleghi si notava la presenza della barba, quasi sempre bianca, data la nostra non giovanissima età. Assai più dell’aspetto delle due consigliere donne, stravolto di stanchezza e anch’esso “nuovo” per la mancanza di trucco, quella nascente “lanugine” biancastra oppure a chiazze bianche e scure sparsa sulle facce dei maschi mi colpiva per la sua “innaturalezza”. Individuata e chiarita, così, la novità, improvvisamente mi resi conto che eravamo in quella grande stanza da due giorni quasi ininterrotti e, in contemporanea, mi piombò addosso, tutta insieme, la stanchezza di quelle ore lunghissime e allucinate. E ancora adesso, se mi capita di vedere una faccia mal rasata (ormai quasi di moda), torno di colpo alla sala riunioni del plenum del Consiglio Superiore della magistratura, nel Palazzo dei Marescialli, a Piazza Indipendenza di Roma.
Il secondo ricordo è arricchito da un sonoro peculiare, consistente in un colloquio tra due soggetti, uno dei quali ero io.
Infatti, appena mi resi conto che il bersaglio di quella innominabile reazione era proprio Borsellino, decisi di “aprire” i giochi, senza alcuna esitazione. Aspettai qualche ora, dopo il primo giorno, e poi misi in atto il mio progetto. Proposi un incontro a quello che ritenevo essere il capo degli “anti” e, quando si presentò, una espressione mista di sufficienza e curiosità, lo affrontai direttamente. Il mio attacco fu molto secco e si risolse in una specie di “avviso ai naviganti”. Dissi al “collega”, che preferisco non nominare, che non intendevo restare ad assistere, ma gli promisi un atteggiamento incredibilmente e totalmente aggressivo per tutto il tempo restante della consiliatura se i “loro” attacchi avessero continuato ad avere come bersaglio principale Borsellino. Parlai con calma, e con estrema decisione; il mio interlocutore, dopo una prevedibilissima replica ipocritamente stupita, andò via senza rispondere. Però il mio avviso a nuora perché suocera intendesse ottenne un discreto risultato, poiché la virulenza delle critiche a Borsellino si attenuò, stemperandosi in una polemica molto allargata contro tutti i soggetti filo Falcone e Borsellino. Qualcuno, dei “nostri” commentò questo cambiamento di tono, subito percepito, come la scelta di un diversa tattica di pesca, gettando una rete a strascico a maglie larghe, sperando che comunque qualche pesciolino ci sarebbe rimasto impigliato. La conclusione di questo episodio di massima contrapposizione fu una specie di documento, nel quale, con forme necessariamente contorte, si diceva, ma non si affermava, e quindi tutto era vago a sufficienza per non provocare un altro “tormentone” negli uffici giudiziari palermitani, che cominciavano appena a riprendersi dopo lo “tsunami” della mancata nomina di Falcone. Ognuno dei contendenti poteva leggere e diffondere una interpretazione che sostenesse la sua tesi; ma la restante durata in carica di quel CSM non fu per niente pacifica, (quasi) nemmeno per l’ordinaria amministrazione (men che meno per la “cerimonia “degli addii, messa in scena, per la prima e unica volta nella storia, nell’aula del Consiglio e non al Quirinale, per “l’ira funesta” dell’inquilino del Quirinale, nonché Presidente del Consiglio Superiore, che non volle “perdonare” la politica consiliare nei riguardi dei magistrati massoni, sempre esistiti e spesso ben noti, ma in genere senza conseguenze sulla “carriera”, finché arrivò un gruppetto di Consiglieri, compreso me, che non lasciò passare la faccenda senza sottolineare aspramente la “stranezza” di magistrati che giuravano, in contemporanea, fedeltà alla Costituzione e alle logge massoniche. Ma al Presidente Cossiga non piacque per nulla quella nostra posizione, ribadita sempre più e con motivazioni sempre più affilate. Così a noi tutti, senza distinzioni tra buoni –pro massoni- e cattivi- antimassoni- toccò un cerimonia di commiato in tono dimesso, direi arrangiata, con la medaglia- ricordo, che non poteva esserci negata, ma che ci venne consegnata, sempre dal Presidente Cossiga, con non celata malavoglia e mala grazia. Erano ancora lontani i tempi della P2, ma non si poteva contestare la circolazione di cappucci in quantità nelle stanze del potere.
5. Le intermittenze del cuore.
“Le intermittenze del cuore sono quei soprassalti straordinari che nello scorrere di una vita normale ci riportano a eventi, cose o persone del passato rimaste nell’ombra, marginali, che aprono una prospettiva sfuggente e rivelatrice al di là del fluire irreversibile del tempo” (Marcel Proust, “La ricerca del tempo perduto”, vol. IV Sodoma e Gomorra). Soprassalti straordinari…nello scorrere di una vita normale. Mi sono venute subito in mente le parole di Proust mentre cercavo e cerco, ancora adesso, di comprendere uno strano fenomeno che mi riguardava.
La terribile esplosione di Capaci ha messo in moto un inarrestabile treno di onde sismiche, che si sono propagate nel mondo, si potrebbe dire, anche se accompagnate da reazioni diverse. Per me, che tanto ero coinvolto per i miei rapporti con Giovanni Falcone, la reazione di fondo fu un incredibile rafforzamento della memoria. Ancora adesso, dopo più di trenta anni, rivedo le scene nella Cattedrale, la bara davanti all’altare, la veglia dei colleghi, a turno, in toga, la scena dirompente del lamento singhiozzante della vedova di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta uccisi dentro l’auto di scorta, saltata in aria come un giocattolo. Ma le immagini compongono una specie di lungo, squassante piano –sequenza, che inizia con l’arrivo delle autorità e si chiude con la lunga, disperata passeggiata sotto una anomala pioggerella, alla testa di una processione dei “ragazzi delle scorte”. Più passa il tempo, più i ricordi si infittiscono, si legano, arricchendosi con la storia tormentata della mia amicizia con Giovanni, e con tutti i comprimari di quella tragica vicenda. Ma per Borsellino cominciarono le mie speciali “intermittenze del cuore”; speciali perché, soprattutto, quei miei giorni a Palermo – dopo il 19 luglio – hanno lasciato una traccia strana, nella mia memoria. I ricordi non sono mai diventati una collana unica, non si sono mai intrecciati ordinatamente, come in genere succede per i ricordi, che si presentano in scena in una successione casuale, per poi entrare nelle rispettive caselle, uno alla volta, o anche parecchi insieme, secondo le decisioni della memoria, che provvede a “legarli”, seguendo criteri propri, però facilmente ricostruibili; “i giorni di Borsellino” hanno continuato sempre ad apparire singolarmente, isolatamente, come se si trattasse di una prima bozza, senza rispettare nemmeno il principio dell’unità di tempi e luoghi, che hanno ferreamente dominato le scene teatrali, fino a quando cominciarono ad affacciarsi i primi flash back, che poi sono diventati, nei film, quasi un procedimento abituale.
Un altro elemento contribuisce a complicare la scena: la mia ritrosia a fissare con lo scritto il caos di sentimenti messo in moto dalla strage di via D’Amelio. Qualche volta mi è capitato di non “avere voglia” di scrivere su qualche argomento – situazioni o vicende che impattano con violenza sul mio animo, con una serie di rimbalzi, come la famosa pietra lanciata sulle onde del mare, o anche dei fiumi – però stavolta la mia riluttanza ha assunto dimensioni insolite: ieri si è compiuto un mese esatto da quando ho cominciato questa nota, con una serie molto irregolare di “ sedute davanti al computer”. È come un cupo brano musicale, che stenta ad avviarsi, a trovare dentro di me la necessaria successione di appigli che sempre mi hanno (quasi) portato con mano quando avevo deciso di stendere in righe ordinate quello che stava diventando una potente spinta interiore a chiarire –innanzitutto a me stesso- il caos che mi danzava disordinatamente tra testa, cuore e stomaco. In questi casi, dopo una “fisiologica” esitazione iniziale il testo passa abbastanza velocemente dalle dita alla testiera e al foglio A4. Stavolta, invece, se non mi fisso termine draconiani arrivo a Natale. Io, però, mi sono fatto una mia idea sulle ragioni di questo strano atteggiamento; dal momento della notizia, spiattellata brutalmente dall’apparecchio televisivo, mi sono sentito come un pugile suonato (dicono), in un equilibrio instabile, navigando alla larga da uno scoglio, nero e puntuto, che tuttavia restava sempre in vista; restava in vista, anche su un panorama dominato da uno scoglio altro, più grande ed irsuto, che somigliava un poco a Falcone. Durante le pause, quando restavo solo a scrutarmi, ad interrogarmi, a cercare le ragioni di fondo, tornavo sempre lì: l’uccisione di Falcone, nei suoi orribili particolari, aveva, in un certo senso, “esaurito” la scorta di dolore che io, come ognuno di noi, mi portavo dentro; non mi sembrava ci fosse più spazio per un altro dolore, tanto simile al primo per la sua enormità; ma, proseguivo, mi sembrava impossibile un dolore per via D’Amelio e uno, separato e anteriore, per Capaci, e quindi, la conclusione, strana parecchio: l’impatto di quelle due morti, a così breve distanza cronologica, con la sua forza dirompente tendeva a, “voleva” quasi, accorparle, tenerle insieme anche dentro l’anima di chi già aveva faticato non poco a metabolizzare il primo attentato. Detto in altri termini, la figura di Paolo si proiettava sul muro del nostro pianto, ma quasi mai in forma singolare e limpida. Non riuscivo a pensare a Borsellino, senza sentire risuonarmi nelle orecchie la voce chioccia di Falcone che lo chiamava, in tono affettuosamente sfottente “camerata Borsellino”, quando si presentò alla sua porta dopo l’attentato, fallito, dell’Addaura. . Ma anche in un angolino quasi “privato” li avevo messi insieme, ripensando a quella sigaretta che tutti e due stringevano tra le dita, nella fotografia diventata famosa proprio dopo la seconda strage.
6. Il vizio del fumo. (b) “Come una sigaretta”.
Era praticamente impossibile pensare a Falcone e/o a Borsellino astraendo dall’eterna aureola del fumo delle sigarette, che tutti e due consumavano in quantità impensabili; del resto risuonava sempre, dentro di me, la voce seria di Giovanni che, rispondendo alle esortazioni di mia moglie Giuliana contro il vizio del fumo, rispose con quella terribile frase “Non preoccuparti Giuliana, io certamente non morirò per il vizio del fumo ” .
Questa banale osservazione, comune a tutti quelli che frequentavano “quei due”, lavorò a lungo dentro di me, seguendo un percorso assai strano, che non sono riuscito a comprendere pienamente nemmeno io.
Durante il mio primo soggiorno palermitano, a maggio, dopo Capaci, avevo sentito una strana sensazione quando mi ero accorto che mi stavo accendendo una sigaretta, come mi fossi “sorpreso con la mano nella marmellata”, che “sapevo” non essere “assaggiabile” in orari ed occasioni non consentiti. Non ci feci molto caso, comunque. Diversa la situazione quando “scesi” nuovamente a Palermo dopo il 19 luglio. Infatti domenica 19 luglio avevo spento gettandola nel water quella che avevo deciso sarebbe la mia “ultima sigaretta”. E non ci avevo pensato più.
Arrivato a Palermo, ci strinse in un unico “abbraccio” l’enormità di quello che era successo; a lungo nessuno parlava, poi, all’improvviso, si accavallavano le testimonianze di chi aveva visto Paolo appena pochissimi giorni prima della bomba, e in quei racconti, prima o poi, veniva fuori la figura di Giovanni. Nessuno, in quel gruppo di persone che facevano lo stesso “mestiere”, pensava possibile scindere in due i ricordi e, tra l’altro, il ricordo delle sigarette era “necessariamente unico”; qualcuno che aveva smesso, riprese il rapporto con il tabacco, sentito come una specie di anestetico. Io, invece, avevo già deciso, prima di partire, che non avrei ceduto al richiamo tabagico, e mi ero fornito di una pacchetto di caramelle alla nicotina, utili, mi dicevano, per attutire la ,o le, prevedibili “crisi di “astinenza”.
E in quella decisione rimasi, fermo. All’inizio mi aiutavo con qualche caramella, poi, dopo pochi giorni, decisi di adottare un regime totalmente “atabagico”. All’inizio qualche rimpianto, qualche timido tentativo di abolire il divieto, ma poi, dopo la prima settimana, cominciò un percorso di distacco. Mi sembrava, non so come, che lo smettere di fumare fosse una specie di legame ultimo con i miei due amici, ammazzati brutalmente, che perciò non avrebbero più potuto abbandonarsi al vizio del fumo. So benissimo che questo motivo non regge, non può entrare in un ragionamento serio, ma da quel giorno non ho più fumato, né acceso una sigaretta, con un piccolo sacrificio iniziale, scomparso ormai del tutto; mi limito a rispondere, a qualche medico che mi chiede se sono fumatore, che ho smesso in un giorno preciso di un anno preciso, senza spiegare altro.
7. Un ricordo duale
Il greco mi è sempre piaciuto, tanto che qualche piccolo brano ho deciso di impararlo a memoria nella sua versione originale (peccato che all’esame di maturità una “antipatia” a prima vista, come un colpo di fulmine, con il commissario -all’epoca rigorosamente esterno- mi fruttò proprio in greco il voto peggiore di una pagella decente).
Quando mi resi conto, nello strazio di quelle due uccisioni, certamente mafiose, ma non credo senza altri ingredienti, che i ricordi affioravano sempre in coppia, mi è venuto in mente il termine “duale”, che nel greco antico, e nelle lingue europee antiche, designa, in grammatica, “due sole persone o cose, o il fatto che l’azione è compiuta o subita da due sole persone “ (Devoto-Oli).
Alla categoria del duale appartiene senz’altro, per me, il mare di ricordi che “tiene insieme” due sole persone, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mai ho sentito l’esattezza del termine come in una occasione, che apparentemente sembra smentirla.
Dopo la cerimonia funebre per Falcone Paolo si offrì di accompagnarmi in auto all’aeroporto di Palermo (ancora in trasformazione, e non ancora intitolato a Falcone e Borsellino). Mentre aspettavamo Paolo si accese una sigaretta ed io mi decisi a dirgli quello che pensavo di dovergli dire fin da Palermo : cercai di essere serio, ma non melodrammatico, quando lo pregai di essere particolarmente cauto, in futuro, essendo ormai chiaro che il prossimo bersaglio sarebbe stato lui. . Borsellino, che non allentò mai i suoi legami con Falcone, era l’immagine della distruzione psicologica quando mi accompagnò all’aeroporto di Palermo, dopo i funerali, ed aveva l’aria profetica quando, alla mia raccomandazione di stare attento più di prima, rispose che, comunque, “quelli” quando volevano potevano quasi tutto, come avevano appena dimostrato. Nemmeno due mesi dopo, Borsellino e la sua scorta, tra cui una ragazza, furono ammazzati con un’altra auto bomba. La voce di Paolo era bassa, ma di una tragica serietà, e la sua faccia scura era in sintonia.
Di questo e di altro intreccerò i miei ricordi nei prossimi 19 luglio, che saranno, ne sono certo, tutti e sempre “intermittenze del cuore”.
Ancona, tra il 20 luglio e il 24 agosto 2023
Fonte: Giustizia Insieme
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