La socializzazione della pipì nei bagni dell’aeroporto “Falcone e Borsellino”
La pipì. La pipì che suscita risate a raffica in un’infanzia impaziente di sentirsi “grande”. La pipì che accompagna le malinconiche battute di una terza età in lotta con la prostata. La pipì che, in quanto elemento di vita, finisce per entrare anche in queste “Storie”.
E d’altronde la socializzazione agli usi e costumi della pipì è una delle cose più necessarie e impegnative della civiltà umana. Si inizia con il neonato che chiede agli adulti dedizione e abilità (e ogni tanto fatica). Si passa per la fase della liberazione dal pannolino, conquista travagliata fino al giubilo collettivo: “non ne ha più bisogno”. Il bimbo ne è orgoglioso, deve solo dare la propria piena disponibilità a confessare tempestivamente le proprie debolezze, che è in fondo una pietra miliare nella formazione del suo spirito di cittadinanza.
Poi c’è il passaggio, pieno di agguati e di timori inconsci, dal vasino al grande vaso di ceramica. Totale, almeno 4 anni di socializzazione. Pensiamoci: all’incirca quanti ne servono per imparare a scrivere e leggere decentemente. Un percorso su cui influiscono biografie, parole ascoltate, gesti visti, contesti sociali e immaginari vari.
Per questo il modo in cui un essere umano o addirittura un popolo fa (mediamente, si capisce) la sua pipì diventa un importante rivelatore di culture e disposizioni civili. Da un po’ di tempo faccio più attenzione a queste e altre presunte minuzie, forse perché l’età mi mette ormai in grado di distillarne informazioni preziose di sociologia della vita quotidiana.
Già mi capitò di sfiorare l’argomento su questa rubrica ai tempi del Covid. Perché quella sporcizia permanente nei bagni pubblici? Forse la paura di contaminarsi premendo il pulsante civilizzatore? Ora però il Covid non c’è più.
Eppure qualche giorno fa, giusto a coronamento di una serata sul sentimento della legalità a San Vito Lo Capo, mi sono imbattuto in una traumatica sorpresa all’aeroporto di Punta Raisi, Palermo.
Dichiarazione preventiva: non ho memoria recente di tutti gli aeroporti nazionali. Posso però dire in coscienza che in nessuno di quelli per cui passo mi è capitato di cercare il luogo della pipì e di trovarlo sporco sette volte di fila al punto da indurmi a cambiarlo tra un improperio e l’altro per poi arrendermi di fronte all’ultimo, l’ottavo. E lì capire che non c’era nessun guasto ai servizi idrici dell’aeroporto.
È bastato infatti spingere il pulsante liberatore per trovarsi subito davanti a uno spettacolo civile, testimonianza che la “socializzazione alla pipì” era passata anche da quelle parti. Intendiamoci, trovo in tanti bagni cartelli che invitano a comportamenti rispettosi degli altri e del decoro comune, talora anche nei dipartimenti universitari.
Ma otto luoghi su otto sono tanti; non sono un caso, sono una statistica. Che non dice cose buone. Vero che da un aeroporto passano per definizione persone di ogni città. Ma lì ho visto quel che qui racconto, nei giorni in cui decanto a ogni dibattito la grande forza rigeneratrice della scuola palermitana.
E penso che in un aeroporto intitolato a due giudici che hanno rappresentato il meglio della cultura civile siciliana e italiana vi debba essere un di più di attenzione su tutto.
Proprio per sgombrare il campo da ogni sguaiata (o composta e amareggiata) ironia. Basterebbe poco. Sistemi autoripulenti, passaggi frequenti di personale (non c’è bisogno di lavare i pavimenti, basta l’uso del classico e faticoso ditino).
Però, visto che qui si parla di aeroporti, non posso tacere quel che in tanti raccontano di quello di Catania (massima solidarietà per l’incendio): ossia una esibizione sfrontata di magliette e souvenir dedicati al “Padrino”.
Pensate ai simboli scelti o accettati di fatto dall’elemento umano: di qui Falcone e Borsellino, di là il Padrino.
Ecco, se devo scegliere in quale aeroporto gridare “che schifo” non ho dubbi sulla scelta. Ma non ve la dico.
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 28/08/2023
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