Giustizia, così lo Stato sottrae 300 milioni all’antimafia
Ci abbiamo messo tempo, sacrifici e lutti per conquistare l’antimafia sociale o dei diritti, che deve viaggiare di pari passo con l’antimafia della cultura e della repressione, altrimenti il sistema zoppica.
Un nostro “fiore all’occhiello”, grazie al quale possiamo rivendicare con orgoglio che l’Italia è sì, purtroppo, un Paese con problemi di mafia, ma anche il Paese dell’antimafia.
Un’antimafia che non agisce solo secondo uno schema di “guardie e ladri”, ma coinvolge la società civile e offre opportunità di lavoro che creano cittadini titolari di diritti, non più sudditi. Un’antimafia che riesce a restituire alla collettività, perché possa trarne profitto, una parte del “bottino” che la mafia le ha rapinato. Un’antimafia che parla di dignità e libertà, un baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei mafiosi.
Ebbene questa antimafia (fondata sulla confisca dei beni illecitamente accumulati dai mafiosi e sulla loro destinazione a finalità socialmente o istituzionalmente utili) rischia ora di essere fortemente indebolita.
Minata alle fondamenta da un tratto di penna governativo che ha stralciato dal Pnrr 300 milioni di euro previsti appunto per la valorizzazione dei beni confiscati alle mafie. Così riportando l’orologio della legalità indietro di una trentina d’anni.
La storia dovrebbe essere a tutti nota ma evidentemente a qualcuno va rinfrescata la memoria. Il metodo più efficace per indebolire la mafia è metterle le mani in tasca. Andare in galera è un male, ma si sopporta. Intollerabile invece è che si tocchino i piccioli. Perché cummannari è meglio ca f…. (grazie al grande Andrea Camilleri non serve completare). Detto oggi sembra un’elementare analisi della mentalità mafiosa. Eppure fu ignorata per decenni.
Il primo a farsene carico fu Pio La Torre, palermitano, parlamentare del Pci, autore di un progetto di legge che prevedeva (oltre al reato di associazione mafiosa) misure patrimoniali contro le ricchezze mafiose accumulate illecitamente. Un pericolo micidiale per la mafia che Pio La Torre paga con la vita il 30 aprile 1982.
Ma il nostro è il paese in cui la legislazione antimafia è spesso quella del “giorno dopo”. Così, per approvare il progetto di La Torre bisognerà aspettare la morte anche del generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso a Palermo la sera del 3 settembre 1982. Appena tre giorni dopo, il 7 settembre 1982, ottiene il primo voto favorevole dalla Camera la legge Rognoni-La Torre, intitolata appunto al suo ideatore e all’allora ministro degli interni.
Ed è così che l’Italia – finalmente – si dota di uno strumento (l’articolo 416 bis, l’associazione di stampo mafioso) senza il quale, ebbe a dire Giovanni Falcone, è come pretendere di affrontare un carro armato a colpi di cerbottana. E quanto ai piccioli, introduce la novità dirompente dell’inversione dell’onere della prova: il condannato per associazione mafiosa deve dimostrare la provenienza lecita dei propri beni, altrimenti scatta automatica la confisca.
Mancava qualcosa però. I beni sequestrati alla mafia restavano inutilizzati. A coprirsi di ragnatele e polvere. E il mafioso aveva buon gioco a dire: vedete, quando questo bene era mio, ci guadagnavo io, ok, ma qualcosa c’era anche per voi; adesso invece più niente per nessuno. La confisca ridotta a boomerang.
Ed è qui che entra in gioco l’antimafia sociale e dei diritti.
Fonte: La Stampa
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