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In memoria del Dott. Pietro Scaglione Procuratore della Repubblica di Palermo

Antonio Nicastro il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria

A Palermo vi è una stradina periferica, Via dei Cipressi, lunga alcune centinaia di metri, costeggiata dalle mura di cinta di un convento di frati.

Siamo nel quartiere della Zisa, e lungo la via vi è il Cimitero dei Cappuccini, dove il Procuratore di Palermo, Pietro Scaglione, era solito recarsi prima di raggiungere il suo ufficio, per pregare sulla tomba della moglie deceduta sei anni prima.

È la mattina del 5 maggio 1971. Intorno alle ore 11 il magistrato, a bordo di una Fiat 1500 guidata dall’agente di custodia Antonino Lo Russo, sta facendo ritorno in Procura. È una vettura normale, non blindata, priva di alcuna specifica protezione. La marcia dell’auto viene, all’improvviso, bloccata da un’altra automobile che stringe la Fiat 1500 del Procuratore verso il muro; due o tre persone aprono il fuoco: proiettili calibro 9 e 38 Special colpiscono più volte il corpo di Pietro Scaglione e dell’agente Lo Russo. Polizia e Carabinieri sopraggiungono dopo una decina di minuti; i due uomini sono in fin di vita: il Procuratore e l’agente di custodia vengono trasportati all’ospedale della “Feliciuzza”, dove, però, giungono entrambi morti. Sul posto, tra i vertici delle forze dell’ordine, giunge anche il generale dei carabinieri Arturo Campanelli: a guidare la macchina dell’alto ufficiale è Mario Lorusso che scopre, in questo modo, quanto appena accaduto al fratello.

Dal 1893, anno in cui viene ucciso Emanuele Notarbartolo, la mafia palermitana non aveva più compiuto omicidi “eccellenti”, segno di un cambiamento di strategia all’interno di Cosa Nostra. Emanuele Notarbartolo era Sindaco di Palermo. In sua memoria venne intitolata una delle vie principali della città Al n. 23 vi abitavano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Oggi vi è l’albero Falcone.

L’uccisione di Pietro Scaglione è il primo episodio di una sequenza di omicidi usati per minare la tenuta delle Istituzioni democratiche; segna il punto di svolta nell’azione della criminalità mafiosa.

Le indagini volte alla ricerca e all’identificazione degli autori dell’omicidio del Procuratore Scaglione e dei possibili moventi sono immediatamente avviate a Palermo sia dalla Questura che dall’Arma dei Carabinieri. Nel rapporto redatto il 6 giugno 1971 (Processo verbale di denunzia a carico di ALBANESE Giuseppe + 65) dai responsabili di pubblica sicurezza – tra cui il vice questore Giorgio Boris Giuliano – , con riferimento all’omicidio del Procuratore Scaglione e dell’Agente Lo Russo può leggersi “Fatti, questi, che non hanno precedenti nelle manifestazioni criminose dell’isola perché appaiono talmente aberranti da far ritenere o che si agitino o si occultino a monte degli esecutori materiali grossissimi interessi ai quali non sarebbero estranei ambienti e personaggi legati al mondo politico ed economico-finanziario e che in forma più o meno occulta, hanno fatto ricorso, dal dopoguerra in poi, a sodalizi di mafia per conseguire iniziali affermazioni nei più svariati settori”.

Nel luglio 1984 Tommaso Buscetta inizia a collaborare con i magistrati. Nei verbali di interrogatorio avanti al giudice Giovanni Falcone del 21 luglio 1984 in merito all’omicidio del dott. Scaglione dichiara: “Per quanto concerne, infine, l’omicidio di Pietro Scaglione ho sentito dire che gli autori sono stati Luciano Liggio, Salvatore Riina ed un terzo a me sconosciuto” ed il 1 agosto 1984 sottolinea che “Circa l’omicidio di Pietro Scaglione posso dire quanto segue. Premesso che il predetto, Procuratore della Repubblica di Palermo, godeva fama di essere uomo integerrimo e contrario al fenomeno mafioso. […] A questo punto viene ucciso Pietro Scaglione e Gaetano Badalamenti […] mi ha detto che ad ucciderlo erano stati materialmente Luciano Leggio e Salvatore Riina ed una terza persona di cui il Badalamenti, son quasi sicuro, non mi fece il nome […] L’omicidio in questione è avvenuto in via dei Cipressi, nel quartiere Danisinni, controllato dalla famiglia di Porta Nuova, di cui, come ho detto, il Calò è il capo. Nessun omicidio, quindi, come ho già detto, e tanto meno l’omicidio di Pietro Scaglione Procuratore della Repubblica in carica, poteva essere effettuato senza il consenso del capo”.

Dopo oltre venti anni dall’omicidio del Procuratore Scaglione, il Giudice istruttore presso il Tribunale di Genova- sede giudiziari nella quale era stata individuata la competenza- , conformandosi alla richiesta del Pubblico Ministero che rileva come “i numerosi tentativi nel corso della lunga istruttoria hanno avuto come esito l’acquisizione di elementi spessi confusi e contradditori; in ogni caso generici e non suffragati da punti fermi, privi di quei riscontri che, nella ricostruzione di ogni fatto sono necessari per passare da una situazione indiziaria o di mero sospetto a quella di prova…” e che “… nonostante l’impegno investigativo ed istruttorio, nonostante i molteplici tentativi rivolti a saggiare terreni nuovi di indagine, nonostante il tempo trascorso […] non sono stati acquisiti elementi – non vuol dirsi di certezza, ma nemmeno di probabilità – circa il movente del duplice omicidio e circa l’identità dei suoi autori”, con sentenza-ordinanza del 16 gennaio 1991, dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati (tra i quali Gerlando Alberti, Giuseppe Calò, Luciano Leggio e Salvatore Riina).

Pietro Scaglione era nato a Lercara Friddi, in Provincia di Palermo, il 2 marzo del 1906. Figlio di una terra intrisa di fatica e sudore, di un’economia legata alle miniere di zolfo, si laurea in legge presso l’Università di Palermo il 10 dicembre 1927, discutendo la tesi “Le leggi penali del 1819 per il Regno delle due Sicilie”.

A soli 22 anni entra in magistratura: nominato vice pretore onorario con R.D. 5 aprile 1928, nel marzo 1929, viene incaricato della reggenza della Pretura di Collesano Con decreto 11 agosto 1933 Pietro Scaglione viene nominato pretore aggiunto e – con decreto del 15 gennaio 1934 – trasferito alla Pretura Unificata di Palermo. Il 29 marzo 1947, con Decreto del Capo provvisorio dello Stato il dott. Scaglione viene destinato alla Procura di Palermo con funzioni di Sostituto Procuratore; il magistrato, il 28 maggio dello stesso anno, presta giuramento di fedeltà alla neonata Repubblica Italiana.

Presso gli uffici requirenti di Palermo (per esigenze di servizio il magistrato viene anche applicato alla Procura Generale), Pietro Scaglione è chiamato ad occuparsi dei più importanti processi di mafia di quel periodo. Sono gli anni delle lotte per la terra, della contrapposizione tra braccianti e sindacati da un lato, e proprietari terrieri dall’altro, seguiti al caos postbellico ed agli scontri tra eserciti indipendentisti (come l’Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana di cui Salvatore Giuliano è il leader indiscusso) e le forze del governo centrale.

La mafia è scesa pesantemente in campo a fianco dei latifondisti per la difesa delle terre e delle rendite parassitarie (la gabella) e per la difesa di un separatismo il cui unico – celato – fine è quello di spegnere ogni antagonismo di classe. La strategia terroristica della mafia si compie attraverso l’eliminazione fisica di molti dirigenti del movimento di lotta contadina e culmina – all’indomani della vittoria elettorale alle elezioni regionali delle forze di sinistra unite nel “Blocco del Popolo” – nella strage di Portella della Ginestra, consumata dalla banda di Salvatore Giuliano, il 1 maggio 1947.

Pietro Scaglione è il magistrato incaricato di seguire il processo per la strage (come anche gli altri processi alla banda Giuliano). Nel processo per la strage di Portella della Ginestra, Gaspare Pisciotta, cugino e luogotenente di Salvatore Giuliano, prima di essere condannato all’ergastolo (insieme ad altri membri della banda) afferma di essere l’assassino di Salvatore Giuliano e chiama in correità diversi politici (tra cui il Ministro Scelba) ed alti ufficiali della polizia e dei carabinieri indicandoli quali mandanti della strage.

Il pomeriggio del 6 febbraio del 1954, nel carcere dell’Ucciardone a Palermo, Pisciotta chiede di parlare con un magistrato. Il magistrato di turno è Pietro Scaglione. Il colloquio tra i due dura a lungo e prende evidentemente una piega inattesa: il Sostituto promette a Pisciotta di tornare in seguito con un cancelliere per verbalizzarne le dichiarazioni. Il 9 febbraio 1954 Gaspare Pisciotta muore in carcere avvelenato con la stricnina.

Pietro Scaglione si occupa dell’istruttoria dell’omicidio di Gaspare Pisciotta e ne sottolinea, invece, il movente mafioso (“…tutto conclama che la soppressione del Pisciotta è un caratteristico delitto di vendetta ordito dalla mafia […] ponendosi così apertamente contro le leggi sovrane dell’omertà, il Pisciotta finì con l’irritare, oltre ogni limite di ragionevole sopportazione la suscettibilità della mafia e dei mafiosi”).

Il processo si conclude con l’assoluzione degli imputati con la formula dubitativa dell’insufficienza di prove. Nel 1957 Pietro Scaglione viene promosso a magistrato di Cassazione e destinato alla Suprema Corte con funzioni di Consigliere dove rimane per soli due anni; con successivo decreto del 16 febbraio 1959 viene infatti trasferito alla Corte di appello di Palermo con funzioni di Presidente di Sezione.

Il 20 novembre 1961 il dott. Scaglione presenta domanda per il posto di Procuratore della Repubblica di Palermo. L’assemblea plenaria del Consiglio Superiore della Magistratura, il 16 marzo 1962, delibera il conferimento dell’ufficio direttivo di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo al dott. Pietro Scaglione, il quale prende possesso delle nuove funzioni il 28 aprile 1962. Quanta professionalità ed esperienza nell’aver svolto funzioni sia giudicanti che requirenti!!!!

Sono gli anni della grande speculazione edilizia (il cd. “sacco di Palermo”) e della prima guerra di mafia che vede contrapposte, per il controllo delle aree edificabili e del traffico di stupefacenti, le bande dei La Barbera da una parte, e dei Greco e dei Torretta dall’altra; l’escalation di omicidi ed attentati dinamitardi raggiunge l’apice nel mese di giugno del 1963 con la strage di Ciaculli in cui perdono la vita un Ufficiale dei Carabinieri ( il tenente i Mario Malausa) , il maresciallo di P.S. Silvio Corrao, il maresciallo dei carabinieri Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio, ed il soldato Giorgio Ciacci.

La fase di violenza montante spinge le forze politiche a dare un segno tangibile della presenza istituzionale: il 12 dicembre 1962 la Camera dei Deputati, a scrutinio segreto (con 478 voti a favore e 35 contrari) approva definitivamente la legge istitutiva della prima Commissione Antimafia (Legge 20 dicembre n. 1720).

Il 15 gennaio 1964 il Procuratore capo di Palermo, chiamato in audizione avanti alla Commissione Antimafia, descrive le allarmanti proporzioni raggiunte in quegli anni dal fenomeno mafioso, indicando quelle misure che a parere dello stesso renderebbero più efficace la prevenzione e la repressione dei delitti mafiosi (“[…] nuova e completa regolamentazione al fermo di polizia giudiziaria protraendone la durata ed estendendo la possibilità per i reati per i quali non sia obbligatorio il mandato di cattura semprechè si tratti di reati caratteristici dell’attività mafiosa […] Estendere l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti di coloro che sono prosciolti, anche in sede istruttoria, con formula dubitativa da reati caratteristici di attività mafiosa […] Alcune delle misure illustrate durante l’audizione dal magistrato confluiscono nella legge antimafia n. 575 del 31 maggio 1965 che estende la possibilità di applicare alcune misure di prevenzione anche a soggetti sospettati di appartenere ad associazioni mafiose così implementando il quadro normativo previsto dalla legge n. 1423 del 27 dicembre 1956).

La Procura, con a capo Pietro Scaglione, e l’Ufficio Istruzione di Palermo, per il tramite del giudice Cesare Terranova, preparano i processi che – come già avvenuto per la strage di Portella della Ginestra – vengono, per legittima suspicione, trasferiti da Palermo e celebrati a Catanzaro dove la Corte d’assise li riunisce e li definisce con la sentenza del 22 dicembre 1968. I Giudici dell’assise calabrese non riconoscono la stretta connessione delle diverse azioni delittuose e l’esistenza di vincoli associativi tali da considerare l’unicità della struttura criminale. La maggior parte degli imputati viene assolta con la formula dubitativa dell’insufficienza di prove. L’esito del processo non fa che rafforzare, all’esterno, l’immagine d’impunità ed il potere di influenza della mafia.

Nello stesso periodo gli inquirenti intensificano le attività su diversi fatti criminali verificatisi a Corleone nel quinquennio 1958-1963 che vedono coinvolto Luciano Leggio (già assolto dalla Corte di assise di Catanzaro, come accaduto in diversi e numerosi, altri, processi) che insieme ai suoi sodali (in particolare Salvatore Riina e Bernardo Provenzano) sta attuando la scalata per il controllo dell’organizzazione criminale attraverso una sanguinosa guerra finalizzata all’eliminazione del boss locale Michele Navarra e delle persone a quest’ultimo legate.

Il processo, istruito a Palermo, ancora una volta viene celebrato lontano dal capoluogo siciliano: con sentenza della Corte di assise di Bari del 10 giugno 1969, Luciano Leggio viene nuovamente assolto per insufficienza di prove. All’indomani della sentenza di Bari, il 18 giugno 1969, Pietro Scaglione, sulla base della legge antimafia del 1965, propone venga disposta nei confronti di Luciano Leggio (e di Salvatore Riina) l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno in un determinato Comune “disponendosi previamente, da parte del Presidente, la custodia precauzionale o, quanto meno, in via provvisoria, ai sensi dell’art. 3 della Legge 31 maggio 1965 n. 525 il suo soggiorno obbligato in un comune diverso da quello di residenza”.

La richiesta viene presentata al Presidente della I sezione penale del Tribunale di Palermo – dott. Nicola La Ferlita – competente anche per le misure di prevenzione che, in pari data, emette l’ordinanza di custodia precauzionale nei confronti di Leggio e Riina. Da quel momento i due banditi possono essere arrestati in qualunque punto si trovino del territorio dello Stato. Dopo l’assoluzione Luciano Leggio e Salvatore Riina vengono, ad opera della questura di Bari, muniti di foglio di via obbligatorio per Corleone, con l’ingiunzione di presentarsi a quell’ufficio di pubblica sicurezza il 19 giugno successivo.

Mentre Salvatore Riina fa ritorno in Sicilia (dove gli viene notificata ed applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno nel comune di San Giovanni Persiceto, che non raggiungerà mai rendendosi nell’immediatezza irreperibile), Luciano Leggio, il 18 giugno 1969 raggiunge Taranto per farsi ricoverare nel reparto malattie infettive dell’Ospedale della Santissima Annunziata. Il 28 settembre 1969, lascia l’ospedale della Santissima Annunziata di Taranto, ma, anziché tornare in Sicilia, raggiunge Roma per essere ricoverato presso la clinica Villa Margherita ed essere sottoposto ad un intervento chirurgico che viene svolto il successivo 18 ottobre 1969. Il 19 novembre di quell’anno, eludendo la sorveglianza, Leggio abbandona la clinica e si rende irreperibile.

Tale situazione genera forte contrasto tra autorità giudiziaria e autorità di pubblica sicurezza che, in ordine alle responsabilità circa l’esecuzione ed i ritardi nell’attuazione delle misure, si accusano a vicenda. In questa fase di aperto scontro fra organi dello Stato, il Consiglio dell’ordine degli Avvocati e Procuratori di Palermo con un ordine del giorno del 21 febbraio 1970, fa pervenire un attestato di stima e solidarietà a tutti i magistrati siciliani “e particolarmente al Procuratore della Repubblica di Palermo che è stato il più esposto alfiere di questa lotta contro la mafia e che ha dimostrato in un quarantennio di intensa attività non comuni doti di serietà, capacità e prestigio…”.

Il Consiglio Superiore della Magistratura – in seguito alle delibere plenarie del 28 aprile e 13-14 maggio 1970 – affida alla Seconda commissione “l’incarico di procedere alle indagini necessarie ad accertare la sussistenza o meno degli elementi previsti per il trasferimento d’ufficio dagli articoli 2 e 4 del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511” nei confronti del dott. Pietro Scaglione e del dott. Nicola la Ferlita. Nel 1971 vengono definiti i procedimenti giudiziari e amministrativi aperti nei confronti del Procuratore Pietro Scaglione: il magistrato non è ritenuto responsabile per i fatti relativi alla “fuga” di Luciano Leggio: il 16 febbraio l’Ufficio istruzione del Tribunale di Firenze, su conforme richiesta della Procura della Repubblica del capoluogo toscano, dichiara non promovibile l’azione penale nei confronti del dott. Scaglione (e del dott. La Ferlita).

La storia si ripete. Prima Palermo oggi Milano!!!

Il 4 marzo 1971 la Commissione per il conferimento degli uffici direttivi del Consiglio Superiore della Magistratura, in una articolata delibera in cui vengono ricostruite le tappe fondamentali della carriera del dott. Pietro Scaglione propone, a maggioranza, che al magistrato venga attribuita l’idoneità alle funzioni direttive superiori.

L’assemblea plenaria del Consiglio, il 25 marzo dello stesso anno, delibera il conferimento dell’ufficio direttivo di Procuratore Generale presso la Corte di appello di Lecce al dott. Pietro Scaglione; posto che il magistrato non arriverà mai a ricoprire.

Mi piace chiudere questo ricordo con le parole di Maria Scaglione, figlia di Pietro: “Era un uomo spettacolare, splendido, che ha dedicato la sua vita al culto della giustizia. Dobbiamo lavorare sulle giovani generazioni, affinchè la memoria non venga uccisa dal tempo, nel rispetto per i morti ai quali è doveroso rendere giustizia. La memoria diventa impegno sociale, per costruire un percorso di giustizia e di democrazia, per l’affermazione dei principi costituzionali, quali giustizia, uguaglianza e solidarietà”.

In questi valori credeva il Procuratore Pietro Scaglione, e noi oggi, con la nostra testimonianza, teniamo viva la fiamma del suo impegno affinché il suo sacrificio, e quello di tutte le altre rose spezzate, non sia stato vano. Pietro Scaglione aveva 65 anni. A lui è dedicata una via di Palermo. Antonio Lo Russo aveva 42 anni. A lui è intitolata la Casa circondariale di Palermo Pagliarelli.

Era il 5 maggio, ma noi non vogliamo dire “Ei Fu”, perché Egli E’ e Sarà finche’ il Suo esempio ed il Suo sacrificio rimarrà scolpito nei cuori dei Magistrati Italiani.

Fonte: Diritto, Giustizia e Costituzione, 29/07/2023

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