Addio nonna Betta. Elisabetta Caponnetto, la tenera custode della migliore Antimafia
“Vado a San Michele a Rovezzano”. Il tassista fuori da Santa Maria Novella resta attonito. Insisto: “La chiesa di San Michele a Rovezzano”. La via, replica lui, a cui non sembra vero di potermi rimproverare l’ignoranza della strada. Aspetti che controllo: via di San Michele a Rovezzano. A quel punto si arrende e cerca. “Ah, è un po’ lontana”.
La bella chiesetta periferica annuncia la sua missione mattutina già all’esterno. Alcuni vigili e carabinieri, qualche auto di servizio. Ma nessun controllo. Solo un appuntamento vagamente solenne, si intuisce, che ha richiamato nella periferia fiorentina quasi un centinaio di persone. Davanti all’altare una bara ricoperta di fiori. Accanto, in attesa di celebrare, don Luigi Ciotti con alcuni sacerdoti locali.
È l’ultimo saluto a Elisabetta Caponnetto, detta “la Bettina” o “nonna Betta” da un intero popolo di giovani di venti, trent’anni fa. Quando lei era la moglie di “nonno Nino”, ossia Antonino Caponnetto, già capo del glorioso pool antimafia del maxiprocesso di Palermo.
Il marito era volato in Sicilia subito dopo la strage del 29 luglio del 1983, quando un’autobomba aveva ucciso davanti a casa sua il capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici e altre tre persone. Caponnetto si era candidato a guidare quell’ufficio senza dirle nulla. Glielo aveva fatto sapere dalla radio.
Lui, dal suo canto, visse in una delle più belle città d’Europa senza vedere né mare né ristoranti, facendo la spola tra la caserma della Finanza dove dormiva e il Palazzo di giustizia. Lei lo attese a Firenze per quattro anni. Storia conosciuta ma non troppo.
I tormentati ma straordinari successi giudiziari, le condanne, le polemiche, i professionisti dell’antimafia, Caponnetto ingannato, Falcone tradito dai suoi stessi colleghi. Fino alla fine sua e di Borsellino. Esattamente quella grande storia giudiziaria e civile aleggia nella chiesetta sotto un dipinto rinascimentale. E Gian Carlo Caselli, commosso, la rievoca.
La signora Elisabetta divenne nota dopo le stragi. Quando il marito decise di reagire all’immenso dolore per quei due fratelli minori persi e si mise alla testa dell’Italia che chiedeva giustizia. Girando senza sosta per il Paese delle associazioni e delle scuole, dei municipi e delle università. Lei c’era quasi sempre.
Iniziò a esserci proprio sempre quando temette che le fatiche provassero troppo il fisico del marito, che con l’età sembrava farsi più fragile, quasi di cartavelina. Si metteva di lato con discrezione, con una eleganza mai vistosa, quella tipica una volta delle “mogli delle istituzioni”, così si diceva. Se lo curava con occhi trepidi e alla fine gli si avvicinava silenziosa.
Lo prendeva sotto il braccio o gli metteva una mano sulla spalla e se lo teneva vicino, per sottrarlo all’assalto di chi chiedeva dichiarazioni, conversazioni, soprattutto nuovi appuntamenti. In quelle centinaia e centinaia di repliche la Bettina spiegò a tutti la modestia dei grandi.
Finché nel 2002 subì come sua l’umiliazione inflitta al marito. Quando ai funerali alla Santissima Annunciata, a salutare con una folla immensa di cittadini il giudice coraggioso, a cui l’Italia doveva la prima grande e irreversibile sconfitta di Cosa Nostra e l’irripetibile apostolato decennale in difesa della legalità calpestata, nessuno del governo mise il naso. Nemmeno un sottosegretario alla Giustizia. Si seppe la sera che mezzo governo si era dato convegno al concorso di miss Padania.
Rimasta sola, ha ricordato il suo Nino con orgoglio, mantenendo finché ha potuto i rapporti con gli ex giovani dell’antimafia. Restando fedele al nome e alla causa.
Davanti a me nella chiesetta stavano tre schiene erette e fiere. Una in camicia blu elettrico, una in polo verde oliva, una in camicia blu scura. Erano “i ragazzi della scorta” del marito, venuti a salutarla più di vent’anni dopo l’addio al Giudice.
Perché la fedeltà è una cosa seria.
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 10/07/2023
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