Cosa deve succedere perché la Commissione Antimafia reagisca? Tre fatti spiegano l’allarme
Superata la “linea rossa”, ma non si registrano sussulti dalla Commissione parlamentare antimafia: i muri di Palazzo San Macuto sono troppo spessi?
Tre fatti spiegano l’allarme (l’ennesimo). Mercoledì scorso sono stati incendiati due mezzi impiegati nel maxi cantiere del raddoppio ferroviario della linea Palermo-Catania.
L’intervento, come ricorda La Repubblica, vale oltre otto miliardi di euro ed è finanziato con i fondi del Pnrr, l’appalto è di WeBuild, ma i mezzi sono di una azienda sub appaltatrice, la Ts, il cui titolare, Daniele Tranchita, intervistato da LiveSicilia afferma (e sono parole che non sentivo da un po’) di non sapere proprio chi possa essere stato a compiere un gesto del genere e che forse si tratta di invidia di qualche collega-concorrente.
Questo fatto, capitato nonostante l’altissimo livello di guardia praticato da WeBuild, riesce in un solo colpo a ricapitolare tutti i motivi di preoccupazione raccolti nell’ultimo anno, portati dagli “addetti” alla prevenzione e al contrasto delle mafie. Argomenti del tipo: guai a sottovalutare gli appetiti delle mafie per i fondi del Pnrr, bisogna potenziare gli strumenti di analisi e intervento anzi che no, attenzione al nuovo Codice degli appalti… etc.
Il secondo fatto, che rappresenta indirettamente una articolazione del primo, è la denuncia forte e inequivocabile che il procuratore nazionale Antimafia e anti terrorismo, Giovanni Melillo, ha messo nero su bianco in una comunicazione inviata al ministro della Giustizia Nordio e sottoscritta da tutti i procuratori distrettuali.
Nel documento, datato 14 giugno, si legge tra l’altro: “Dopo quasi tre anni dall’entrata in vigore di quella riforma, tuttavia, non solo restano inalterati i gravi limiti originari dell’architettura degli Adi (Archivio Digitale delle Intercettazioni), ma risultano sempre più evidenti criticità infrastrutturali e gestionali che espongono il sistema a grave rischio di collasso funzionale. Come segnalato anche nel corso dei lavori dell’istituito Tavolo tecnico permanente per il monitoraggio delle prestazioni obbligatorie e funzionali alle intercettazioni, gli attuali Adi si rivelano sempre più insufficienti e irriformabili”.
Alla faccia della “transizione digitale” e della capacità dei nostri organismi di competere con le tecnologie evolute di cui dispongono le mafie, diventate decisive soprattutto sui fronti del narcotraffico internazionale e del riciclaggio delle risorse illecite accumulate.
Il terzo fatto è la lettera denuncia dell’imprenditore calabrese e testimone di giustizia Antonino De Masi, pubblicata da Il Fatto proprio ieri e indirizzata al presidente della Repubblica. Nella lettera, che merita grande attenzione anche per la sofferta rivendicazione del senso dei tanti sacrifici sopportati dallo stesso De Masi e dalla sua famiglia (costretta per motivi di sicurezza a vivere altrove), c’è un passaggio di profonda saggezza e di carattere generale, quello nel quale De Masi mette in relazione la forza cogente della ‘ndrangheta, con la desertificazione sociale ed economica della Calabria.
Possibile, mi chiedo, che non si colga il nesso tra questo argomento e il tentativo di costituzionalizzare la segregazione del Mezzogiorno italiano con la cosiddetta “autonomia differenziata”? O il nesso tra questo argomento e quanto Gomez mercoledì in questo stesso giornale definiva provocatoriamente “legalizzazione della mafia”, alludendo alle falle ormai evidenti della Riforma Cartabia?
Verificare l’adeguatezza degli strumenti di prevenzione e contrasto delle infiltrazioni mafiose nel Pnrr; monitorare rigorosamente l’impatto sul medesimo fronte delle nuove norme del Codice degli Appalti o della Riforma Cartabia, ascoltando la Dna, l’Anac, la Corte dei Conti, l’Anm, solo per fare alcuni esempi; analizzare le politiche di promozione sociale decise e finanziate soprattutto nei territori più esposti a quella “desertificazione”.
Fare queste cose per poi proporre azioni e correttivi, magari in una relazione discussa e approvata nei prossimi sei mesi e non alla fine della Legislatura, sarebbe un buon modo per reagire da parte della Commissione parlamentare antimafia, per dimostrare la propria capacità di essere antenna e sprone per Parlamento e governo, per dimostrare la propria volontà di rappresentare un baluardo di buona politica contro la tentazione di dare ragione all’Alvaro, citato da De Masi, su quanto sia perso un Paese nel quale non valga più la pena essere onesti.
La speranza che ciò possa accadere la voglio ancora alimentare con dedizione, anche se il resoconto dell’ultima riunione dell’Ufficio di Presidenza della Commissione, finalmente convocato nella giornata di martedì 4 luglio, rende il compito assai improbo. Così infatti recita il resoconto pubblicato: “L’ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, si è riunito dalle 13.10 alle 14”.
Punto. Ma non basta.
Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello
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