Don Lorenzo Milani. La lezione della devianza che diventa fonte di legalità
«Il prete che scrisse alla professoressa ». La figura storica, l’impatto culturale di don Lorenzo Milani, rinviano per associazione mentale a questa immagine.
Nel centenario dalla nascita di uno dei più importanti testimoni della nostra società postbellica, punto di riferimento ineludibile nella storia della scuola, si rinnovano le analisi del contributo dato dal priore di Barbiana al faticoso cammino di un’Italia messa davanti alla sua Costituzione.
La facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano ha scelto di dedicargli nel pomeriggio di mercoledì 24 un convegno che ha proprio in quell’immagine iniziale il suo titolo. Ma il centenario è quasi un pretesto, poiché il convegno è in realtà il punto di arrivo di un cammino che ha portato più volte gruppi di studenti a interrogarsi sulla funzione civile di alcuni “don”.
Ovvero a discutere della funzione che uomini di chiesa più o meno “regolari” hanno svolto nell’influenzare (positivamente) la vita laica del Paese. Già nel 2013 venne dedicato un seminario estivo di una settimana (all’Asinara, per la cronaca) a una rappresentanza significativa di questi don: da padre Pino Puglisi a don Andrea Gallo, da don Peppe Diana a don Luigi Ciotti. E il primo “don”, quello da cui il seminario prese le mosse, fu proprio Lorenzo Milani: la scuola dalle porte aperte e il rigore dei metodi educativi; la ribellione al sistema in nome dei principi fondativi del sistema.
Per l’università fu un’esperienza culturale decisamente fertile, che portò a un ciclo di lezioni autogestite e, due anni dopo, al conferimento della laurea ad honorem in comunicazione pubblica allo stesso don Ciotti nonché a don Gino Rigoldi e a don Virginio Colmegna. Fu il segno che l’università statale sapeva fare propri insegnamenti che venivano dal mondo cattolico, intrecciandoli con prospettive di impegno e di riflessione più ampie, funzionalizzandoli anzi alle proprie mete educative e scientifiche, dalla lotta a crimine organizzato all’educazione civile.
Ebbene, il cammino iniziato un decennio fa è proseguito in questi ultimi anni. Nei quali gran parte delle attenzioni sono state indirizzate a ridefinire l’idea di legalità, soprattutto davanti agli evidenti scarti tra i concetti di legge e giustizia, mentre cresceva la consapevolezza che la legalità è un concetto mobile, dipendente dalle trasformazioni dei contesti sociali e culturali. Anni nei quali, in particolare, si è fatta strada la tesi della devianza, ossia della non conformità alle regole, come frequente anticipazione di una legalità superiore.
Non ne fu forse protagonista esemplare don Milani? Lui con il suo invito alla disobbedienza (poiché “l’obbedienza non è una virtù”, com’egli diceva), lui con la sua opposizione al servizio militare e la sua battaglia per l’obiezione di coscienza? Lui che vide nella scuola degli anni Cinquanta e Sessanta la negazione dei principi costituzionali dell’eguaglianza sociale e delle pari condizioni di partenza?
Partendo dal suo paradigma, l’idea che la non conformità alle leggi anziché esprimere una forza distruttiva verso l’ordinamento sociale possa produrre una legalità di rango più elevato si è fatta dunque largo negli studi. E si è nutrita nel tempo anche dell’esempio di testimoni laici.
Come Franco Basaglia, che con la sua psichiatria mandò a soqquadro un’intera intelaiatura normativa e di consuetudini; o come Danilo Dolci, il sociologo militante che pensò di portare l’acqua a Trappeto, frazione di Partinico, mobilitando la popolazione alla costruzione volontaria e abusiva di una diga e per questo fu portato a processo.
Abbiamo così imparato che il prete che dovette essere difeso in tribunale per le sue idee di democrazia e di giustizia sociale stava in realtà scavando nelle rocce antiche della società italiana una cultura di eguaglianza.
Certo, con le impennate dialettiche di cui era capace. Certo, facendosi portatore – un po’ come Pier Paolo Pasolini – anche di una domanda di conservazione di fronte a una trasformazione epocale tumultuosa. Ma creando al contempo una originale filosofia educativa, assumendo su di sé la scommessa di una Costituzione da società democratica in un paese contadino e ancora condizionato da tassi di analfabetismo spaventosi.
La “devianza” come fonte di nuova legalità. Non ce n’è abbastanza per fare un convegno a più voci, laiche e cattoliche, università, scuola, istituzioni, associazioni, per poi per discuterne ancora? Forse è anche il momento storico giusto.
Fonte: Avvenire, 23/05/2023
Milano 22/24/26 maggio: “Reinventare la legalità”, la tre giorni di Scienze Politiche
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