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Peppino Impastato e Aldo Moro hanno molto di più del 9 maggio in comune

Davide Mattiello il . Costituzione, Criminalità, Diritti, Mafie, Memoria, Politica

Peppino Impastato e Aldo Moro hanno molto di più del 9 maggio in comune: le loro morti sono un monito ancora oggi per chi intenda cambiare le cose. Per davvero.

Peppino Impastato ed Aldo Moro hanno in comune prima che la morte violenta, la scelta di impegno radicale per la libertà e per la democrazia, certo attraverso percorsi molto diversi, ma non così tanto distanti se soltanto si pensi che Peppino aveva infine deciso di candidarsi alle elezioni comunali di Cinisi.

Sappiamo come è andata a finire: Peppino risulterà eletto, il più votato dai cittadini di Cinisi, anche se ormai morto. La sua elezione postuma fu un tributo al valore del suo lavoro. Peppino, pur consapevole di quanta mafia ci fosse allora nello Stato, aveva risolto la duplice avversione (“Né con la mafia né con lo Stato”), preferendo la Repubblica e l’attività politica democratica. Chissà cosa sarebbe riuscito a fare da consigliere comunale ed è precisamente questo che Cosa Nostra gli ha impedito di provare, dopo averlo sicuramente mal sopportato per tutta la sua straordinaria e coraggiosa attività di denuncia, condita da quella insopportabile (per i mafiosi) irriverenza, che conosciamo dai nastri di Radio Aut.

Siamo nell’Italia di fine anni 70, una Italia nella quale mettere in discussione l’ordine costituito dall’esito della Seconda Guerra mondiale, poteva costare anche la vita, tanto più se per farlo si adoperano gli strumenti della Costituzione repubblicana, fossero stati i partiti, i giornali o i tribunali.

Lo sapeva bene Aldo Moro, che pure, a suo modo, dall’inizio degli anni 70 aveva intrapreso un cammino inaudito, cercando nuove possibili convergenze con il Pci di Berlinguer, provando a mettere a fattor comune l’autonomia dell’Italia e la legittimazione derivante dalle più importanti culture popolari, a salvaguardia degli istituti democratici.

Morirono entrambi schiacciati dalla normalizzazione che ancora si praticava con vigore in quella Italia a corrente alternata, che ora si apriva alla riforma dell’organizzazione sociale, ora ripiombava nel terrore che inchioda al passato. Cosa Nostra, ed ora è fin troppo facile scriverlo, faceva parte di quella armata normalizzatrice.

Sembrano passati molto più che quarantacinque anni da quel 1978, tanto appare diverso il nostro presente dal loro. Ma è poi così?

Il mondo continua a dividersi tra amici e nemici, la guerra continua ad essere la grammatica delle relazioni che hanno per posta i fondamentali dell’economia, forse soltanto le mafie sono state retrocesse in un altro “campionato”. Un “campionato” cadetto rispetto a quello dove si decidono le sorti del potere pubblico, fatto comunque di ferocia e di fiumi di denaro.

La ferocia con la quale il 2 maggio è stata assassinata Antonella Lopardo a Cassano allo Ionio, scambiata dai sicari per il marito e massacrata a colpi di kalashnikov. Il fiume di denaro documentato dalla inchiesta “Eureka”, due miliardi di euro il valore complessivo stimato dagli investigatori dei traffici planetari di droga, che hanno fatto dire al Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, non senza una nota di sgomento: e qualcuno ancora parla di ‘ndrangheta agricola.

Non è possibile prevedere se e come questa potenza criminale, rappresentata in particolare, ma non esclusivamente, dalla ‘ndrangheta calabrese, tornerà a militare nella massima competizione, ritrovando una qualche connessione nevralgica con certo potere politico e burocratico.

Forse dipenderà da quanta forza avrà chi, scegliendo il campo repubblicano e operando attraverso gli strumenti previsti dalla Costituzione, apparirà come una minaccia reale (cioè, al di la degli slogan da campagna elettorale) degli equilibri di potere costituitisi all’esito della Terza Guerra mondiale, passata alla Storia come Guerra Fredda, quella conclusasi con i sussulti degli anni ’89-’93.

E nulla, credo, sarà in tal senso più pericoloso che riprendere senz’altro il cammino per una Unione Europea da trasformare in Repubblica federale, anche se questo traguardo dovesse essere perseguito soltanto da un primo nucleo di Paesi, verosimilmente quelli fondatori della Ue.

Cosa farà l’Italia? Molto dipenderà dalle prossime elezioni europee e dalla rinnovata capacità di leadership consapevoli di criticare senza paura quel che c’è, anche quando farlo significasse avvicinarsi al confine scabroso che separa gli “amici” dai “nemici”.

Come mi pare abbiano fatto recentemente Roberto Fico ed Elly Schlein stigmatizzando le parole di Descalzi sull’Egitto, richiamando il valore incomprimibile della giustizia per il sequestro, la tortura e l’assassinio di Giulio Regeni. Per questo avrei preferito che le dimissioni di Cottarelli dal Senato (e dal “Pd di Elly Schlein”) non fossero arrivate proprio all’indomani di queste dichiarazioni. Coincidenze.

Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello

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