L’altro bavaglio, sms dal lager nel deserto: noi innocenti, non fateci morire
Voci dall’inferno. Un appello disperato, una angosciante richiesta di
aiuto. Non ascoltarla significa essere complici dei carnefici. Poche
righe che danno conto di una situazione drammatica. Quella dei 200
eritrei deportati nel lager di Brak, nel sud della Libia. «Signore,
signori, questo messaggio di disperazione proviene da 200 eritrei che
stanno morendo nel deserto del Sahara, in Libia. Siamo colpiti da
malattie contagiose, la tortura è una pratica comune e, quel che è
peggio, siamo rinchiusi in celle sotterranee dove la temperatura supera
i 40°. Stiamo soffrendo e morendo. Questi profughi innocenti stanno
perdendo la speranza e rischiano la morte. Perché dovremmo morire nel
deserto dopo essere fuggiti dal nostro Paese dove venivamo torturati e
uccisi? Vi preghiamo di far sapere al mondo che non vogliamo morire qui
e che siamo allo stremo. Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro.
Vi preghiamo di inoltrare questo messaggio alle organizzazioni
umanitarie interessate».
L’Unità lo ha fatto. Inoltrandolo
anche a chi ha l’autorità per poter intervenire sulle autorità libiche:
il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi; il ministro
dell’Interno, Roberto Maroni; il ministro degli Esteri, Franco
Frattini. «Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro», invocano i 200
segregati nel Sahara. Quel luogo può, deve essere l’Italia. Ne hanno il
diritto, hanno i requisiti per ottenere l’asilo. L’alternativa è
scritta in quella disperata richiesta di aiuto: «Stiamo soffrendo e
morendo. Stiamo perdendo le speranze. Qui moriremo nel deserto. E a
casa ci aspetta la tortura o la morte».
Chiedono aiuto. E di far
conoscere la loro storia. L’Unità lo ha fatto, in solitario per alcuni
giorni. Il messaggio è riuscito ad uscire dalle celle del centro di
detenzione di Brak, 80 chilometri da Sebah, nel Sud della Libia, dove
dal 30 giugno scorso si trovano oltre 200 eritrei deportati dal centro
di detenzione per migranti di Misurata, nel quale sono rimasti una
cinquantina di loro compagni di sventura, tra cui 13 donne e 7 bambini.
Il gruppo era stato deportato su tre camion container come «punizione»
a seguito di una rivolta scoppiata il giorno prima fra i detenuti che
non hanno voluto dare le proprie generalità a diplomatici del loro
Paese per paura di essere soggetti a un rimpatrio forzato. E per molti
di loro rimpatrio equivale a una condanna a morte o, se va bene, ai
lavori forzati.
A gestire le sorti dei 200 eritrei nel Centro
di detenzione di Brak, che dipende da quello di Sebah, secondo quanto
riferiscono fonti non governative locali, sono in questo momento i
militari e non il normale circuito della polizia penitenziaria. Mentre
nel carcere l’emergenza umanitaria si fa sempre più pressante sono in
corso a Tripoli «incontri fra diplomatici eritrei e ufficiali
governativi libici», riferiscono fonti dell’Iom (Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni) di Tripoli, «per arrivare a una
soluzione che permetta ai reclusi di lasciare al più presto il carcere
di Brak».
Quel sms interroga le nostre coscienze. Chiama alla
mobilitazione. Pretende una risposta dai ministri Maroni e Frattini.
Una risposta che tarda a venire. Come tarda la riapertura l’ufficio
dell’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) in Libia.
Tra quei 245 segregati in un lager, ci sono anche una parte degli
eritrei respinti dalla Marina militare italiana nell’estate 2009.
Intercettati sulla rotta di Lampedusa. E rispediti indietro.
All’inferno. «I rifugiati sono sottoposti a forti maltrattamenti e sono
tenuti in estrema scarsità di acqua e di cibo. Alle persone che
presentano ferite e gravi condizioni di salute non sono fornite cure
mediche», ricorda in un comunicato il Consiglio italiano per i
rifugiati (Cir). «Stiamo soffrendo e morendo..». Qualcuno li ascolterà?
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