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Riace, Piacenza, Padova. Associazioni a delinquere ovunque?

Nello Rossi * il . Criminalità, Diritti, Giustizia, Istituzioni, SIcurezza

È sempre più frequente la contestazione da parte di Procure della Repubblica del reato di associazione a delinquere nei confronti di quanti – partecipando a forme non ortodosse di protesta sociale, di azione sindacale, di solidarietà – possono incorrere in violazioni della legge penale.

È una tendenza che si è manifestata in tre recenti vicende giudiziarie tra di loro diversissime -Riace, Piacenza e Padova – e che ha un inquietante tratto comune: induce a guardare fenomeni sociali complessi attraverso la lente monocromatica della criminalizzazione che trasforma gruppi ed aggregazioni in altrettante associazioni criminali ed i mezzi illegali eventualmente utilizzati negli unici e veri scopi dell’azione collettiva. 

Iniziative estemporanee o una pulsione ricorrente? 

Isolate levate di ingegno? Iniziative estemporanee? Interpretazioni azzardate, sempre possibili nell’ambito di un potere diffuso com’è quello della magistratura italiana?

O piuttosto una pulsione ricorrente, un tic mentale, una tendenza – minoritaria, certo, ma non per questo meno inquietante – che sta prendendo corpo sotto i nostri occhi nel clima politico della destra al governo?

Parliamo della sempre più frequente contestazione da parte di Procure della Repubblica del reato di associazione a delinquere nei confronti di quanti – partecipando a forme non ortodosse di protesta sociale, di azione sindacale, di solidarietà – possono incorrere in violazioni della legge penale.

È quanto avvenuto, come è noto, nei confronti di Domenico Lucano e di altri cittadini, protagonisti dell’esperimento di gestione dei rifugiati e immigrati nel Comune di Riace.

Ad essi,  dopo la stagione degli elogi e dei riconoscimenti per i risultati raggiunti,  sono state mosse numerose accuse, la prima delle quali è stata quella di «essersi associati tra loro anche in tempi diversi allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio) così orientando l’esercizio della funzione pubblica degli uffici del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Reggio Calabria, preposti alla gestione dell’accoglienza dei rifugiati nell’ambito dei progetti SPRAR, CAS e MSNA e per l’affidamento dei servizi da espletare nell’ambito del Comune di Riace, verso il soddisfacimento degli indebiti interessi patrimoniali delle associazioni e cooperative (enti gestori dei progetti  SPRAR, CAS e MSNA) con durevole divisione dei compiti e ruoli ….» [1].

Il copione si è ripetuto, sia pure in un diversissimo contesto, nella vicenda dei sindacalisti del settore della logistica di Piacenza accusati di essersi «associati per commettere i reati di violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e sabotaggio» [2].

Contestazione che coronava una rappresentazione pregiudizialmente negativa e distorta dell’attività sindacale e delle forme di lotta adottate dai lavoratori, tutte qualificate alla stregua di altrettante azioni criminose, ricattatorie e truffaldine [3].

Ed è di questi giorni la notizia che a Padova sono indagati per associazione a delinquere dodici militanti del movimento Ultima Generazione (gruppo nato alla fine del 2021 all’interno del gruppo internazionale Extinction Rebellion) autori di azioni di protesta che vanno dalle performance polemiche nei confronti di esponenti politici al blocco del traffico e all’imbrattamento e danneggiamento di edifici pubblici e privati.

La lente monocromatica della criminalizzazione

Riace, Piacenza, Padova: tre vicende diversissime in termini sociali e giuridici, tre procedimenti che si trovano in fasi differenti, con esiti tutt’altro che scontati e quasi certamente non omogenei.

Per questo non ci sentiamo di dare nulla per scontato.

Può essere che nell’afflato di accoglienza che ha caratterizzato l’esperienza di Mimmo Lucano e nello spirito di rinascita del comune calabrese ripopolato e rianimato dagli immigrati siano stati commessi singoli errori e vi siano state specifiche cadute di legalità; anche se – lo diciamo con franchezza – la monumentale motivazione non vale a rendere né persuasiva né accettabile la rilettura dell’intera vicenda in chiave criminale.

Allo stesso modo l’aspra conflittualità che si è sprigionata nel contesto difficile delle imprese piacentine può essere stata all’origine di forme di lotte che, oltre a poter risultare primitive e sbagliate, si sono tradotte in violazioni della legge penale.

Ed infine è certo che sporcare e danneggiare, in nome della drammatica emergenza climatica ed ambientale, edifici e monumenti che sono anch’essi parte integrante dell’“ambiente” in cui viviamo, resta una forma di protesta insensata, dannosa e controproducente rispetto ai fini proclamati. Così che la nobiltà dei fini stenta a nobilitare e riscattare azioni nocive, comprensibilmente non comprese e non condivise dalla maggioranza dei cittadini.

E però in tutti e tre questi casi (e in altri analoghi) la contestazione del reato di associazione a delinquere segna un allarmante salto di qualità, che ha come effetto lo stravolgimento tanto della realtà effettuale quanto della sua adeguata qualificazione giuridica.

Le volontà, le intenzioni, le finalità dichiarate e perseguite dagli attori dell’esperimento amministrativo di Riace, delle lotte sindacali di Piacenza, delle proteste per il clima di Padova vengono arbitrariamente cancellate dal quadro del diritto e del processo e sostituite da un‘altra realtà distorta e fittizia.

La realtà di persone che sarebbero esclusivamente mosse da una condivisa volontà criminale ed accomunate non dal desiderio di perseguire fini sociali, culturali, politici (magari attuato in forme errate e penalmente illecite) ma solo dall’intento di porre in essere un programma criminoso, un piano di delitti, di volta in volta contro l’amministrazione, contro l’ordine pubblico, contro la proprietà.

Così a fenomeni sociali complessi si finisce con il guardare attraverso la lente monocromatica della criminalizzazione che trasforma gruppi ed aggregazioni in altrettante associazioni criminali ed i mezzi illegali eventualmente utilizzati negli unici e veri scopi dell’azione collettiva.

Si tratti di un frutto avvelenato del panpenalismo o di un pericoloso strabismo inquisitorio [4] è certo che questa chiave di lettura e di qualificazione giuridica carica di valenze improprie l’esercizio della giurisdizione penale e compromette, per più aspetti irrimediabilmente, il giusto modo di affrontare le forme più aspre di conflittualità sociale.

E tanti garantisti stanno a guardare…

Nonostante l’incessante logomachia sulla giustizia penale sono state poche le voci che si sono levate a denunciare la tendenza sin qui illustrata, che non esita a qualificare come fenomeni e gruppi “criminali”, realtà e aggregazioni sociali oggetto di profondi travagli ma non per questo meritevoli di essere stigmatizzate e trattate solo come manifestazioni delinquenziali.

L’ennesimo tradimento del garantismo, che nel nostro Paese annovera non solo nemici dichiarati ma anche insidiosissimi falsi amici?

In un suo libro recente, intitolato Garantismo [5], Vincenzo Roppo ha puntigliosamente elencato tradimenti e falsi amici del garantismo, icasticamente definito come preziosa invenzione della civiltà umana «senza la quale la vita degli uomini sarebbe decisamente peggiore; non meno di quanto lo sarebbe senza i progressi della scienza, della tecnica, della medicina, e senza il conforto delle arti» [6].

Vale la pena di rievocare almeno le teste di capitolo di questa singolare classificazione che a ciascun lettore può rammentare personali esperienze e riflessioni: il garantismo sospeso o sopito; il garantismo estremista /assolutista; il garantismo iperbolico; il garantismo incoerente; il garantismo belligerante; il garantismo complottista; il garantismo pretestuoso di autodifesa; il garantismo in caricatura; il garantismo strabico /discriminatorio.

Ecco: del garantismo discriminatorio è lampante manifestazione il silenzio dei più nei riguardi della criminalizzazione di gruppi sociali attuata attraverso la impropria contestazione del reato di associazione a delinquere e l’introduzione di norme repressive sulle manifestazioni giovanili meno ortodosse.

Un orientamento in nuce ma non per questo meno dannoso e pericoloso su cui tace il Ministro della Giustizia, estremamente ciarliero nel dibattito sulle garanzie quando si tratta di discettare dei reati dei colletti bianchi, estremamente ossequiente al Ministro dell’Interno sulle scelte di politica criminale, estremamente distratto tutte le volte che sono in gioco le garanzie delle minoranze e dei soggetti più deboli.

Questi temi, del resto, saranno un banco di prova anche per la neonata “lega dei garantisti” che riunisce parlamentari di diversa collocazione politica e per l’avvocatura italiana.

Per parte nostra abbiamo da tempo compreso che, nell’interesse della giurisdizione e della magistratura va rinverdita la prassi della critica dei provvedimenti proveniente dall’interno stesso della magistratura; e di ciò sono testimonianza le molte pagine di Questione Giustizia dedicate all’analisi critica di atti e di prassi giurisdizionali.

**

Note

[1] Alla contestazione ha fatto seguito, come è noto, il processo dinanzi al Tribunale di Locri concluso in primo grado il 30.9.2021 con la sentenza n. 607/21 che ha irrogato pesanti condanne anche per il reato di associazione a delinquere.

[2] Sul caso Piacenza – nel quale ai coordinatori di due sindacati di base della logistica operanti nel territorio di Piacenza la Procura della Repubblica è stato contestato il reato di associazione a delinquere e una lunga serie di reati fine e sono state applicate dal GIP misure cautelari – vedi sulle pagine di Questione Giustizia on line gli articoli di Linda D’Ancona, Il caso Piacenza. Sindacati o associazioni a delinquere? del 2.8.2022 e di Emilio Sirianni, La “pretesa” del conflitto e l’oblio. Ancora note ad ordinanza 2019/2022 del GIP di Piacenza, dell’1.10.2021.

[3] Nei capi di imputazione si leggeva, tra l’altro., che gli indagati:

– «creavano ad arte o alimentavano situazioni di conflitto con la parte datoriale, prendendo a pretesto ogni normale e banale problematica di lavoro risolvibile tramite fisiologici rapporti datore di lavoro/lavoratori, avviando attività di picchettaggio illegale all’esterno degli stabilimenti interessati impedendo ai mezzi di entrare e uscire, anche occasionando scontri con le forze dell’ordine, occupando la sede stradale anche con oggetti oltre che con la persona dei lavoratori istigati allo scopo, ponendo in essere continue azioni di sabotaggio (ad esempio azionando l’interruttore di emergenza per interrompere l’azione dei macchinari utilizzati per la movimentazione dei pacchi), istigando i lavoratori a forme di lotta sindacale illecite, compreso il rallentamento pretestuoso o strumentale dell’attività lavorativa o l’uso dell’astensione per malattia anche in assenza di problematiche sanitarie»;

– «Così alimentato il conflitto costringevano la parte datoriale – piegata dall’illegale blocco dei mezzi e delle merci, con il rischio di vedersi bloccata tutta la filiera logistica del “supplì chain” e in definitiva di perdere l’appalto con il committente (fortemente danneggiato non solo dalle mancate consegne ma dal blocco o rallentamento di tutta la filiera) – a continue concessioni, anche indebite contrattualmente, ed alla fine costringendola ad addivenire a procedure conciliative garantendo ai lavoratori ricche buonuscite ed agli indagati di incassare il contributo previsto per sigle che avevano perorato le ragioni dei lavoratori interessati»;

– «tramite tale sistema alimentavano attorno alla loro persona reti clientelari di lavoratori interessati alla stabilizzazione, anche e soprattutto a scapito dei lavoratori iscritti a sigle contrapposte, o comunque a lucrare ricche buonuscite, nonché ad approfittare della forza ricattatoria del sindacato di appartenenza per sottrarsi alla propria obbligazione lavorativa (ricorrendo a scioperi bianchi, rallentamenti, uso distorto ed illegale della malattia)»;

– «infatti, una volta ottenuto e consolidato il potere di ricattare la parte datoriale minacciando continui dannosissimi blocchi, al fine di consolidare la propria presenza all’interno del magazzino con le stesse modalità iniziavano a favorire “i propri lavoratori”, affinché ottenessero di svolgere le mansioni più gradite a scapito degli altri, ottenendo pretestuosi privilegi e ciò per accreditarsi davanti agli “altri” come l’organizzazione più efficace ed in grado di fare ottenere loro condizioni migliori, sebbene ingiuste, in una logica di proselitismo autoalimentato»;

– «così raggiunta una forza evidente e monopolizzante all’interno dell’HUB cominciavano ad imporsi alla proprietà anche per le scelte squisitamente a questa riservate, come appunto l’organizzazione del lavoro ovvero l’assunzione di singoli lavoratori a scapito di altri, imponendo il proprio volere minacciando in qualsiasi momento arresti alla produzione pretestuosi, non annunciati e dannosissimi; di qui le onerose conciliazioni, con incasso di ingenti somme da parte della sigla»;

– «e così, per le finalità sopra indicate, si associavano per commettere un numero indeterminato di delitti della specie sopra indicata” ossia violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e sabotaggio».

Le condotte erano contestate dal 2014 fino all’attualità.

Seguivano oltre centoquaranta capi di imputazione relativi ai dedotti reati – fine, tra cui violenza privata (art. 610 cod. pen.), sabotaggio (art. 508 cod. pen.), turbata libertà dell’industria o del commercio (513 cod. pen.), inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità (650 cod. pen.), omesso avviso al Questore dell’organizzazione di pubblica manifestazione (art. 18 r.d. n. 773/1931), interruzione di servizio o di pubblica necessità (art. 340 cod. pen.), resistenza a pubblico ufficiale aggravata (artt. 337, 339 cod. pen.), inosservanza del provvedimento dell’Autorità emesso per ragioni di ordine pubblico (art. 24, comma 3, r.d. n. 773/1931), rifiuto di indicazioni sulla propria identità (art. 651 cod. pen.), inottemperanza all’ordine di esibire il documento di identità e il permesso di soggiorno (art. 6, comma 3, legge n. 286/1998).

[4] Di strabismo inquisitorio parla in relazione al caso Piacenza L. D’Ancona nell’articolo citato alla nota n. 2 sostenendo che nella impostazione del PM e del GIP «si confonde la condotta tipica di alcuni reati, come quello di sabotaggio, per la finalità perseguita dal gruppo di sodali, rectius sindacalisti, e si perde di vista il reale scopo delle condotte – che talvolta possono trasmodare in atti illeciti penalmente rilevanti – costituito dall’obbiettivo di costringere le parti datoriali ad addivenire a patti con il gruppo sindacale che persegue obiettivi di tutela della collettività dei lavoratori aderenti. In altre parole, l’aberratio consiste nell’aver obliterato il reale scopo della lotta sindacale, ed aver costruito l’esistenza di un programma criminoso su azioni o condotte meramente eventuali, non programmate né programmabili al momento della nascita dell’associazione, il cui unico elemento unificante è rappresentato dal perseguimento di uno scopo del tutto lecito e costituzionalmente garantito».

[5] V. Roppo, Garantismo, 2022, Milano, Baldini&Castoldi.

[6] V. Roppo, op.cit. p. 425.

* Direttore di Questione Giustizia

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