Lotta alla mafia. La partita si gioca anche nelle università. Come a Città del Messico
Questa è una di quelle classiche notizie che non fanno notizia. Ma che fra qualche tempo potrebbe segnare un prima e un dopo nella lotta al crimine organizzato.
Anche se non sono in ballo processi o manette. Anche se non è di un’operazione giudiziaria che si parla. Ma di aule universitarie, di educazione e di cultura. Di conoscenza e di modi di pensare.
È successo che venerdì 31 marzo a Città del Messico, nella storica villa di Porfirio Diaz a Coyoacàn, si sono riuniti i rappresentanti di un grappolo di prestigiose università e istituti di formazione messicani, tra cui il Colegio del Mèxico, più il locale e grande museo “Memoria y tolerancia”. E con loro un esponente della Pontificia academia mariana internationalis del Vaticano e l’ambasciatore italiano Luigi De Chiara. E un esponente della Università degli Studi di Milano, che ha fatto un po’ da apripista del progetto.
E insieme hanno sottoscritto una “Lettera di intenti” esprimendo preoccupazione per la crescita delle fenomenologie criminali “in aree significative del pianeta”, sottolineandone le “vaste, profonde implicazioni umanitarie e politico-istituzionali, economiche e sociali”. Hanno, perciò, deciso di mettere in comune un patrimonio di conoscenze specialistiche per costruire “alleanze e forme di cooperazione universitaria utili a contrastare l’escesa del crimine organizzato”.
Non è una dichiarazione di circostanza. È da tempo che in alcuni settori del mondo universitario si discute di come assumersi nuove responsabilità di fronte a quanto accade.
Certamente lo si fa in Messico, con la tragedia permanente di omicidi e sparizioni in corso, regolarmente archiviata da stampa e politica tra le normalità quotidiane. Ma anche fuori dal Messico, in continenti che negli ultimi trent’anni hanno visto crescere un numero spropositato di organizzazioni criminali, delle quali spesso non sappiamo nulla.
In continenti dove il crimine non controlla “solo” più i settori tradizionalmente lasciati sotto la sua giurisdizione, dal gioco d’azzardo allo sfruttamento della prostituzione, dalle discoteche alla tratta. Ma tende a irrompere dopo decenni di accumulazione di denaro sporco con tutta la sua forza pervasiva nei settori centrali dell’economia, contaminandola e facendone altra cosa.
Il crimine viaggia veloce, impara presto nuove opportunità e comportamenti. Le leggi e la giustizia viaggiano invece molto più lentamente. E la cultura, che potrebbe volare, viaggia ancora più lenta, con un sistema accademico che rifugge quasi sempre dal farsi carico delle urgenze.
Perfino in Messico, dove il numero di morti e desaparecidos dovrebbe avere spinto già da tempo tutte le istituzioni culturali a entrare in campo e giocare la partita che spetta loro. Anche in Italia, storica culla della mafia davanti al mondo, e dove pure si è dovuto attendere un secolo e mezzo dall’unità d’Italia, perché gli studi sulla mafia fossero oggetto di corsi universitari.
Ecco perché l’impegno sottoscritto venerdì a Città del Messico è importante. Perché vuole costituire un punto di svolta in questa storia di accidie. Perché non nasce sulla base di nuovi finanziamenti (non stabiliti nell’accordo) ma sulla base di nuovi modi di pensare. Di una nuova testa. In grado di rispondere alle domande che arrivano dalle élites colte e sensibili. O da coloro, i deboli, che più subiscono gli effetti del crimine organizzato. Sul piano dei diritti umani come sul piano dei diritti ambientali.
Il fatto, per dire, che Unam, la più grande università dell’America latina, si congiunga con quella di Milano, con la partecipazione assolutamente significativa del Vaticano, dà la misura del passo avanti volto a realizzare sul campo l’auspicio più volte espresso dalle Nazioni Unite: che alla cooperazione internazionale sul piano giuridico-giudiziario si affianchi finalmente la cooperazione internazionale sul piano educativo-culturale.
Sempre che sia vero che le mafie non sono solo questione di giustizia e polizia.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 03/04/2023
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Parole a caso. Ora e sempre “resilienza”. Il Covid ha fatto male anche al vocabolario
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