Commissione antimafia, trent’anni fa la relazione Violante: tanto lucida quanto profetica
Trent’anni fa veniva approvata la relazione “mafia-politica” dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta dall’on. Luciano Violante: una relazione tanto lucida nel fotografare il presente quanto profetica. Forse persino al di là delle intenzioni dei suoi stessi redattori.
La relazione venne precisamente approvata il 6 aprile 1993 e basta fermarsi a riflettere su questa data per comprenderne il significato politico, perché siamo nel pieno della strategia stragista di Cosa Nostra. O meglio della “Cosa Unica”, se assumiamo le risultanze del processo “’Ndrangheta stragista”, che in Appello ha visto confermare l’ipotesi accusatoria già accolta in primo grado.
La Commissione parlamentare antimafia, dando prova di grande sangue freddo e dedizione istituzionale, decise di affrontare il tema scottante dei rapporti tra mafia e politica nell’ottobre del ’92, quando cioè si sono da poco consumate non soltanto le stragi di Capaci e via d’Amelio, ma anche gli omicidi non meno eloquenti di Salvo Lima e Ignazio Salvo.
La relazione venne approvata un momento prima del ritorno del tritolo mafioso, che insanguinerà tutto il 1993 a cominciare dal fallito attentato di via Fauro a Roma il 14 maggio, di cui ho recentemente scritto.
Magistrale è la relazione nel tracciare un quadro impietoso e dettagliato dei rapporti tra Stato (politica) e mafia, pur occupandosi dichiaratamente e comprensibilmente soltanto di Cosa Nostra e dunque della Sicilia, ma avendo comunque cura di sottolineare la valenza nazionale dei rapporti costruiti sull’isola.
Altrettanto puntuale è la rivendicazione delle scelte positive fatte dalla politica volte a contrastare Cosa Nostra; scelte, invero, per decenni intermittenti e tragicamente mosse dalla necessità di reagire a fatti di intollerabile violenza mafiosa, diventate finalmente, secondo la relazione, strutturali e irrevocabili dopo la morte di Falcone e Borsellino.
Ma ci sono almeno due questioni affrontate dalla relazione che la rendono attualissima e meritevole di attenzione (chissà se la nuova Commissione anti mafia vorrà dedicarle almeno un convegno).
La prima: la relazione mette nero su bianco le ragioni storico-politiche che spiegano (non giustificano!) la “coabitazione” (cit.) tra Stato e Cosa Nostra, in danno di coloro che invece non la accettarono mai, pagando per ciò spesso il prezzo estremo della vita. Quali ragioni?
1. Il contesto geopolitico internazionale che autorizzava i due grandi campi contrapposti, quello comunista e quello atlantista, a darsele senza esclusione di colpi. In questo contesto la mafia siciliana avrebbe militato organicamente nel campo atlantista, con tutte le conseguenze del caso.
2. L’arretratezza delle tecniche investigative che, assegnando un peso eccessivo al ruolo del “confidente”, spingevano l’investigatore sul terreno scivoloso della continua negoziazione (oggi abbiamo imparato a chiamarla “trattativa”).
3. La tendenza isolazionista (sic) della Sicilia, animata da spinte indipendentiste di difficile gestione da parte dello Stato centrale.
Rispetto a questa prima grande questione, rileva, sempre tenendo conto del momento in cui viene votata la relazione (6 aprile 1993!), il giudizio tranciante espresso dalla Commissione: tutte queste ragioni, argomenta la relazione, oggi sono venute meno e quindi la prosecuzione, in qualunque forma, di una logica “coabitativa” col suo corredo osceno di “negoziazioni” deve essere ripudiata perché il contrario sarebbe “un atto di inescusabile favoritismo”. Più chiaro di così.
La seconda questione è quella che mi ha fatto usare in premessa il termine “profetica” e cioè la definizione accurata del concetto di colpa/responsabilità politica, come di una responsabilità perfettamente autonoma rispetto a quella penale. Autonoma tanto sul piano del contenuto, quanto sul piano dell’accertamento, quanto su quello delle conseguenze. Ai giudici la sovranità nella sfera penale, al Parlamento la sovranità nella sfera politica.
Prima di addentrarmi, brevemente, nella questione, si tenga presente che la relazione tutta prende le mosse proprio dall’omicidio di Salvo Lima e che pertanto è possibile leggere l’intera relazione seguendo un filo che ora emerge esplicitamente, ora resta sommerso – quello del legame tra Salvo Lima e Giulio Andreotti (raggiunto dalla richiesta di autorizzazione a procedere il 27 marzo 1993).
Ebbene: in che cosa si sostanzierebbe la colpa/responsabilità politica nel particolare campo del rapporto con la mafia? Cito: “La responsabilità politica (…) può certamente nascere da fatto altrui quando da tale fatto si desume un giudizio di inaffidabilità sull’uomo politico. Se la persona di fiducia dell’uomo politico compie atti di grave scorrettezza o di rilevanza penale, l’uomo politico non risponde dei commessi della persona di fiducia, ma risponde per aver dato prova di non saper scegliere o di non aver accertato o di aver tollerato comportamenti scorretti”. E come ne risponde? Con l’espulsione dal consorzio politico.
Appunto: parole profetiche, forse al di là delle stesse intenzioni degli estensori della relazione. Come avrebbero potuto immaginare infatti che di lì a poco una nuova formazione politica avrebbe fatto irruzione nella storia italiana, che il suo co-fondatore sarebbe stato condannato per concorso in mafia e che il suo fondatore (al quale vanno anche i miei auguri di pronta guarigione!, avrebbe per decenni pagato sonoramente la protezione proprio di Cosa Nostra? Altro che Andreotti!
Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello
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