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L’inchiesta: tutta la verità su Ilaria Alpi e Miran

Di Roberto Morrione il . L'analisi

Verità e giustizia per Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assassinati 16 anni fa a Mogadiscio mentre conducevano una difficile inchiesta sui traffici d’armi e rifiuti tossici fra Italia e Somalia. La verità è faticosamente emersa da indagini giudiziarie, testimonianze, inchieste giornalistiche, ma la giustizia non l’ha fatta sua, condizionata da poteri che si sono rivelati troppo forti. L’appello lanciato dal Premio Alpi, sull’appassionata richiesta di Giorgio e Luciana Alpi, che non si sono mai arresi, è rivolto alla magistratura, al mondo politico, al Capo dello Stato, affinché sia ancora possibile trovare esecutori e mandanti del duplice omicidio.

Per troppi anni sono state archiviate e a volte bloccate le inchieste avviate dalle Procure di Asti e Torre Annunziata come dalla Digos di Udine, mentre un valido magistrato di Roma è stato rimosso con sospette motivazioni. L’unica commissione parlamentare di indagine dopo anni di lavoro si è conclusa nel 2006 con una vergognosa relazione di maggioranza voluta dal presidente Carlo Taormina, che negava l’evidenza e arrivava a deridere il lavoro delle due vittime. Il solo processo celebrato si è concluso con la condanna di un imputato, Hashi Omar Hassan, accusato di aver fatto parte del commando omicida pur non avendo sparato: è apparso come una vittima sacrificale, incastrato da un ambiguo testimone, Ali Rage Hamed, detto Jelle, non a caso oggi accusato di calunnia. Mentre la procura di Roma chiedeva di chiudere per sempre il caso, il Gip Emanuele Cersosimo lo ha infatti mantenuto aperto, chiedendo nuove indagini con una significativa motivazione: «la ricostruzione della vicenda più probabile e ragionevole appare essere quella dell’omicidio su commissione, posto in essere per impedire che le notizie raccolte dalla Alpi e da Hrovatin in ordine ai traffici di armi e rifiuti tossici avvenuti fra l’Italia e la Somalia venissero portate a conoscenza dell’opinione pubblica italiana».

Ecco dunque la verità.  Il 20 marzo 1994 Ilaria e Miran furono vittime di un agguato ordinato perché la giornalista del Tg3 non rivelasse la ragnatela di interessi criminali fra uomini della Cooperazione, allora gestita dall’entourage di Bettino Craxi, faccendieri, organizzazioni mafiose, con l’aiuto di funzionari dei servizi segreti. Traffici d’armi in cambio dell’autorizzazione a inviare in Somalia, per esservi seppellite a terra o affondate in mare, enormi quantità di rifiuti tossici, che stanno seminando malattie e morte fra la popolazione del Corno d’Africa. Nella vicenda si susseguono le menzogne, i depistaggi, i silenzi avvolti nel segreto di stato, le coperture dei Servizi allo sporco affare. L’appello dell’associazione che difende la memoria di una giovane giornalista che credeva nella ricerca della verità risuona oggi come un allarme.

Quegli stessi servizi segreti, non «deviati» come vengono comodamente definiti, ma ufficiali e istituzionali, hanno lasciato scie di sangue e omertà in tanti fatti che hanno scosso la Repubblica. Fino ai delitti di mafia e alle stragi degli anni 90, per proteggere interessi politici e affaristici, «longa manus» di coloro che fanno della corruzione la radice stessa del potere.

Mentre incombe una legge liberticida, che vuole colpire insieme l’autonomia dei giudici e della stampa e i diritti dei cittadini, chi vuole derubare il Paese eludendo ogni principio di controllo sociale, cercare la verità su quanto accadde in Somalia è un obiettivo morale, civile, professionale. Trovare i mandanti di quei traffici e di quell’agguato di stampo mafioso non è solo un dovere verso chi è caduto, ma è combattere il male che, oggi come ieri, corrode l’Italia e di cui la libertà può morire.

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