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Il Garante dei detenuti: “La comunità per tossicodipendenti? Può essere la strada giusta”

Luca Cereda il . Criminalità, Diritti, Droga, Giustizia, Istituzioni, SIcurezza

Secondo i dati di febbraio del Dap – il Dipartimento di amministrazione penitenziaria – a fronte di una capienza regolare nelle carceri italiane di 51.285 persone, i detenuti sono 56.319. E di questi il 30 per cento sono dipendenti da sostanze. Mauro Palma, garante detenuti: “Spostarli dalle celle alle comunità, come propone il sottosegretario alla Giustizia Delmastro, è una proposta con una sua dignità, dice Mauro Palma. Ma non bisogna confondere i problemi socio-sanitari con quelli penali ed è importante differenziare tra reati”.

Non sarebbe una novità per le comunità che ospitano persone in cura dalla dipendenza da sostanze, accogliere detenuti, come propone il sottosegretario Andrea Delmastro, anche per svuotare le carceri. Il sottosegretario alla Giustizia ha detto: “Sto lavorando a un provvedimento che immagina di coinvolgere il Terzo settore, quelle comunità chiuse in stile San Patrignano, per costruire un percorso alternativo alla detenzione”.

Alla base dell’idea c’è la volontà di provare a risolvere la questione dell’affollamento dei penitenziari, svuotando le carceri di quel 30 per cento circa di detenuti con dipendenze varie, in particolare modo da sostanze, e appoggiandosi a strutture del privato sociale. Il testo della proposta sarebbe ancora in fase di ultimazione secondo Delmastro, quindi non è ancora possibile definire un crono-programma perché prima bisogna confrontarsi con gli attori in campo, a partire proprio dagli enti del Terzo settore chiamati in causa.

“È un percorso da condividere con il mondo del non profit per comprendere appieno la capienza strutturale. E con le Regioni che hanno la delega alla sanità e dovranno certificare le cooperative e controllarne la gestione. Il piano – ha detto Delmastro in un’intervista al Messaggero – funzionerebbe così: il giudice già in sentenza può sostituire i giorni di carcere indicati con un numero uguale presso una comunità protetta. Cioè se vieni condannato a due anni puoi scontarli tutti lì. Se poi impieghi 8 mesi a disintossicarti, per il tempo restante la comunità ti aiuterà a formarti e a trovare lavoro. Ma la comunità sarà controllata 24 ore su 24, se scappi hai bruciato la tua seconda possibilità e sarai perseguito per il reato di evasione. E lo stato, come un buon padre di famiglia, non potrà più fidarsi. Su questo non transigo. Vede sono un giurista basico, incarno l’uomo medio. Ma è una posizione che rivendico perché è questa che ci fa prendere voti”.

“Come garante dei diritti delle persone detenute dico che mi sembra strano che un sottosegretario, che ha una funzione governativa, parli da esponente di partito”, ribatte il garante dei detenuti Mauro Palma.

Che aggiunge: “La proposta ha una sua dignità. E con alcune necessarie correzioni può funzionare. In linea generale – sostiene – non bisogna mai confondere i problemi socio-sanitari con quelli penali. Non credo sia percorribile la strada delle strutture ibride. Ritengo comunque sia opportuno evitare discorsi da “bianco o nero”: le situazioni dei detenuti con problemi di dipendenza da droghe sono molto diverse, mentre il sottosegretario alla Giustizia Delmastro non sembra fare nessuna differenza. Ci sono persone in carcere per ciò che il comma 5 dell’articolo 73 del testo unico sulla droga definisce ‘spaccio di lieve entità’.

Per loro va ripensato completamente il percorso, tirandoli fuori dal carcere. Poi ci sono detenuti con dipendenze rei di ‘piccolo spaccio’: per loro la comunità andrebbe molto bene, purché abbia una connotazione di presa in carico e non sia chiusa e dura. Poi ci sono detenuti con storie di dipendenza, spaccio e altri reati, per i quali serve un dialogo tra comunità e struttura penitenziaria, che è tuttavia inevitabile”.

Insomma, il concetto chiave per il garante Palma la differenziazione e la personalizzazione dei percorsi. Lo stesso discorso, vale poi anche per le comunità di recupero che sono un insieme di realtà molto variegate. “Le comunità sono diverse, ce ne sono a maggiore o minore intensità ed è giusto che esistano sfumature e diversità di approccio terapeutico: anche qui, il bianco o nero non funzionano mai”. Il sottosegretario fa bene invece, riconosce Palma, a pensare a un patto con le regioni, che hanno sui territori il dovere di assicurare la salute di tutti, anche dei detenuti, e gli enti del Terzo settore. Ad esempio il 7 marzo, all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile, a Roma, è morta una detenuta con diversi problemi di dipendenza da sostanze. “Si tratta di una persona che era stata in carcere quasi una ventina di volte. Dovremmo chiederci – conclude Palma – che cosa ha fatto per lei il territorio e se anche i servizi sanitari interni all’istituto non avrebbero potuto aprire un dialogo migliore. E dovremmo chiederci che cosa poteva fare il carcere per una persona come lei”.

La droga porta dietro le sbarre tantissime persone che in galera non ci dovrebbero stare: “Non secondo me – spiega il dottor Francesco Scopelliti, direttore delle strutture penitenziarie della Asst Santi Carlo e Paolo di Milano -, ma sulla base della legge 309 del 90. Per andare in questa direzione, a Milano 27 anni fa abbiamo creato all’interno del tribunale un’équipe che interviene formulando un programma terapeutico che presentiamo al giudice della sezione direttissima che in questo modo una volta emessa la sentenza può inviare l’arrestato con dipendenze da stupefacenti in luogo comunità o SerD in alternativa alla carcerazione”.

La rivoluzione sta nel trasformare il tribunale in un luogo di cura con l’obiettivo di intercettare imputati con problemi di tossicodipendenza e proporre loro un percorso di riabilitazione, grazie al presenza nei giorni di udienza di assistenti sociali, psicologi e medici nell’aula dei processi per direttissima: “Con questo tipo di intervento, che da anni proviamo ad esportare da Milano, – conclude Scopelliti – ogni anno intercettato 600 persone a cui viene data la possibilità di iniziare una cura in modo precoce, aumentando le possibilità di riuscita dell’intervento”.

Fonte: vita.it, 17/03/2023

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